Il bivio Lenza, dove si incrociano le strade provenienti da Cutro e Roccabernarda - Foto cn24tv |
Tra canti e bevute
In un mondo ormai scomparso, la storia
di Bebè, chitarrista girovago.
C’è una terra, nel centro della
Calabria, poco conosciuta e comunque lontana dai grandi flussi del turismo di
massa. È la Presila
del Marchesato di Crotone, terra che continua a profumare dei boschi delle
montagne vicine, ma che già prende in faccia l’aria salmastra che le giunge
dalla costa ionica ancora lontana. Qua le persone a prima vista sembrano
scostanti e dure come il paesaggio che le accoglie, a metà strada tra la
dolcezza delle colline circostanti e l’asprezza della macchia
mediterranea.
Mio padre, un tempo, andava abbastanza
spesso da quelle parti per alcuni suoi commerci di olio e mi portava sempre con
sé. Al rientro ci si fermava immancabilmente lungo la strada in un punto di
ristoro al bivio Lenza. Si trattava allora di una stanzuccia dalle pareti
annerite e scrostate, con un bancone di tavole, al quale veniva servito quasi
esclusivamente del vino. Unica concessione era la spuma, che qualcuno soleva
aggiungere al vino, per allungarlo ed illudersi così di berne un po’ di più. Su
un lato del bancone facevano bella mostra di sé un paio di vasi in vetro con
caramelle di rabarbaro e menta. Non vi era acqua corrente ed i bicchieri
venivano risciacquati in un catino colmo d’acqua. La modernità aveva portato
però un freezer per i gelati, sempre scarsi e male assortiti.
E questo ambiente diventava spesso lo
sfondo, nel quale vari attori si avvicendavano ad interpretare dei ruoli sul
palcoscenico della vita. Ogni occasione era buona per fare un po’ di musica e
cantare: erano voci apprezzabili, seppur non educate al canto. Contadini e
piccoli artigiani, vestiti ancora dei panni di lavoro, erano accomunati dal
piacere di stare assieme e da un bicchiere di buon vino prodotto dallo stesso
oste. Si vedevano omaccioni, dalle mani rudi e dai volti paonazzi, che si
commuovevano quasi nel cantare Calabrisella mia. A me faceva impressione tutto
ciò, perché in precedenza non avevo mai visto degli uomini piangere e
soprattutto perché non riuscivo a capire che cosa ci fosse da piangere. Non
sapevo che era ancora vivo in queste persone il ricordo degli stenti, che li
aveva talvolta obbligati ad emigrare oppure a scendere verso la costa, fertile
e paludosa, per ritornarne spesso febbricitanti di malaria.
Qui, qualche volta, era possibile
incontrare Ciccilluzzo di Mesoraca, artista girovago che non perdeva mai
occasione per esibirsi. Si dava un’occhiata intorno e, se erano presenti almeno
due o tre persone, saliva subito su una sedia, richiamava l’attenzione dei
presenti e incominciava a recitare filastrocche e scioglilingua che solo lui
conosceva. Alla fine della recita scendeva dal suo piedistallo e chiedeva dieci
lire. “M’e ‘ddu’ dece lire?”, diceva, non con l’aria di chi chiede l’elemosina,
ma con l’atteggiamento di chi chiede il giusto compenso per un’esibizione
artistica.
Un tale, paralitico da anni, se ne
stava per l’intera giornata in un angolo, seduto su una sedia a rotelle rabberciata alla meglio, con
davanti il bicchiere sempre miracolosamente pieno, dove intingeva dei biscotti
vecchi, ormai rinsecchiti e duri come granito. Amava continuamente ripetere il
famoso detto “vuota il bicchier ch’è pieno, empi il bicchier ch’è vuoto, non lo
lasciar mai pieno, non lo lasciar mai vuoto”. Infine, nell’ultimo mezzo bicchiere
da svuotare, prima di tornarsene a casa, risciacquava meticolosamente la
dentiera. E io mi chiedevo a cosa gli potesse servire quella dentiera, che egli
teneva perennemente sul tavolo.
C’era poi lo spaccone, tale Lillo,
pronto sempre a scommettere su qualsiasi cosa e che nel presentarsi amava
ripetere: “Piaceri, Lillu, chi previt’ un si ficia”. Messo in seminario dalla
famiglia che sperava di trovargli così una buona occupazione, si era fatto
cacciare per aver combinato non si sa bene quale diavoleria. Fra le sue tante
scommesse, famosa quella in cui si era detto capace di mangiare un grillo vivo.
La vinse, dopodiché, rivolgendosi al grillo che aveva appena inghiottito,
disse: “Tardi cantasti, griggru!”.
Iniziavano poi grandi discussioni che
coinvolgevano un po’ tutti, nelle quali ognuno riferiva cose per sentito dire e
le sosteneva con determinazione. Il gestore del locale, un tale alto un metro e
mezzo, detto semplicemente “il tappo”, se ne venne fuori una volta sostenendo
che la terra era piatta e che chi sosteneva il contrario era semplicemente un
idiota. In modo accanito cercava di dimostrare che, sì, insomma… proprio
piatta, piatta… no, non lo era; certo, ci si poteva trovare qualche bitorzolo,
qualche dosso più o meno alto, ma che tutto poteva essere, tranne una palla. I
più si limitavano a sorridere di fronte a tanta ostinazione, ma un giorno un
tale, non informato delle sue manie, prese a far polemiche. Al che “il tappo”
rispose che lì il padrone era lui e che,
se uno pensava che la terra fosse tonda, quella era la porta ed era invitato ad accomodarsi fuori.
Il più atteso, comunque, era Bebè,
perché portava la chitarra. Abitava in una casupola fuori dal paese di
Roccabernarda, con un fazzoletto di terra attorno, dove, non si sa per quale
motivo, il pollaio era stato posizionato in modo che le galline dovessero per
forza attraversare la cucina, per andare a scorazzare all’aperto. La moglie era
una cuoca provetta, per la verità poco interessata alle regole igieniche, al
punto che, mentre spianava la sfoglia sul tavolo, doveva mandar via le galline
che venivano a zampettarci sopra. D’altra parte, da lì dovevano passare per
entrare ed uscire dal pollaio!
La chitarra di Bebè era mitica. Fatta
artigianalmente da lui stesso, riportava i segni del tempo e delle sbornie ed i
vari sfondamenti venivano di volta in volta rattoppati con pezzi di compensato,
talché la cassa armonica era costellata di toppe. Il pezzo forte di Bebè,
spesso richiesto, era Rosa, risbìgghiati. Lui non si faceva pregare due volte e
la intonava accompagnandosi con la chitarra, dandosi il ritmo con qualche
colpetto della mano sulla gamba d’appoggio. Era un canto di sdegno per l’amata
Rosa e Bebè la cantava con passione, concludendo “Faccia di piru cottu, di
pumadoru sfattu, dimmi chi t’haiu fattu ca nun mi guardi cchiù”. Bebè aveva
imparato a suonare la chitarra quando era militare, guardando di nascosto un
suo commilitone, che non solo si era rifiutato di insegnargli a suonarla, ma
che si nascondeva per impedirgli di vedere.
Ma una notte di Gennaio Bebè fu atteso
invano a casa dalla moglie. Faceva molto freddo ed in cielo risplendeva una
luna piena che rischiarava in parte le ombre che si aggiravano nel buio. Dopo
aver suonato e bevuto a lungo con gli amici, sulla strada del ritorno a casa Bebè
si sentì stanco e affaticato. Decise di fermarsi un attimo, solo un attimo, a
sedere su una panchina illuminata dalla debole luce di un lampione. Ma la
stanchezza lo sopraffece ed egli si addormentò. Il gelo della notte, che forse
era in cerca di qualche preda, lo sorprese indifeso su quella panchina e lo avvolse. Alle prime
luci dell’alba un passante lo vide ricoperto di brina, con gli occhi chiusi, e
lo scosse un pochino, per ridestarlo. Bebè si piegò lentamente da un lato,
riverso, e finì per appoggiare il volto, quasi come in un ultimo abbraccio, sul
manico di quella sua chitarra che egli aveva allacciato a tracolla.
Al suo funerale vennero in molti, anche
dai paesi vicini, perché Bebè era benvoluto. Tutti, con il vestito buono ed il
cappello stretto in mano, sfilarono ordinatamente davanti alla bara e
trattennero a stento la commozione che si manifestava in un leggero tremolio
del labbro. Mai più Rosa avrebbe ascoltato parole di sdegno, mai più la
chitarra rattoppata avrebbe accordato le note di Calabrisella mia.
Finite le esequie in Chiesa, il
funerale si avviò verso il piccolo cimitero con il cancello cigolante sempre
aperto e, prima che la tomba fosse richiusa, i compagni di brigata intonarono,
a mo’ di canto di rispetto, l’ultimo addio a Bebè, ricordandone in rima le
qualità di uomo, di amico e di musico, come si conveniva ad un personaggio
quale egli era stato nel suo piccolo mondo. Gli amici Scintilla e Disturbo
cantarono le ultime battute:
Bebè, tu ch’eri amicu di vivute,
tu ni lassasti e po’ ti ‘ndi si’
gghiutu.
Mo’ cu ri santi certu ti ‘ndi stai,
for’ i da vita e for’ i nostri guai.
Le lacrime, faticosamente trattenute
fino ad allora, riempirono gli occhi dei presenti, commossi dalle parole che
ricordavano il caro Bebè.
Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale
l’Espresso, 2012, pag. 23.