martedì 30 aprile 2013

lunedì 29 aprile 2013

Roma capoccia

Roma - Piazza di Spagna in due foto del 18 aprile 2013


domenica 28 aprile 2013

Eroe in erba - Racconto di Ezio Scaramuzzino

Scandale - Piazza Oberdan in una foto degli anni Cinquanta conservata da Luigi Aprigliano.
Sulla destra, il famoso Bar Centrale.

EROE IN ERBA
Un autunno di tanti anni fa mi ritrovavo seduto sulla veranda del Bar Centrale. Molti del nostro gruppo erano già partiti per andare a cercar fortuna fuori ed al paese eravamo rimasti in pochi: giusto quelli che, come me, erano riusciti a trovare un lavoro tra le braccia protettrici dello Stato e gli altri che non si decidevano a partire, in attesa di tempi migliori.
Alcuni, all’interno, si accapigliavano nell’ennesima partita di Terziglio, mentre io, distrattamente, osservavo l’andirivieni delle poche persone nella piazza circostante.
Mi venne incontro Franco Tribelli, che non vedevo da tanto tempo. Venne a salutarmi, con affetto e con quel sorriso eternamente stampato sulle labbra, che sembrava il sigillo della sua vita piena di vicende meravigliose, delle quali egli, di tanto in tanto, mi rendeva partecipe.
Contenti di ritrovarci, dopo i convenevoli di rito, rievocammo insieme alcuni episodi della nostra vita. Ricordammo con piacere, in modo particolare, una incredibile mangiata di fichidindia che ci aveva accomunati da ragazzi. Lui, più grande di me di qualche anno, mi aveva trascinato di notte in un orto privato dove crescevano quelle meravigliose piante spinose ricoperte di dolcissimi e saporitissimi frutti. Al chiarore della luna piena, ne mangiammo per un paio d’ore, badando a non riempirci di spine e scegliendo di preferenza quelle verdi, chiamate “napoletane”, che trovavamo divinamente gustose. Il giorno dopo, purtroppo, ci colpì una occlusione intestinale, che si risolse solo con un solenne clistere, prescritto dal medico Mauro e praticatoci dall’infermiere don Agostino.
Franco mi raccontò poi gli ultimi accadimenti della sua vita. Dopo la laurea in medicina si era stabilito a Torino, dove si era fidanzato e dove aveva richiesto di essere incluso nelle graduatorie del Servizio Sanitario Nazionale. L’assunzione però tardava ad arrivare e qualcuno gli aveva suggerito di incrementare il punteggio in graduatoria con qualche documento integrativo. Ad esempio la certificazione di un qualche merito antifascista valeva ben dieci punti in più in graduatoria, quasi quanto la laurea, e a lui era venuta una buona idea. Si era ricordato, beh …si era ricordato, improvvisamente e quasi come in una folgorazione, che da bambino, un qualche merito antifascista lui se l’era guadagnato.
Sempre più incuriosito, soprattutto per il fatto che a me non risultava che dalle nostre parti ci fosse mai stata una qualche forma di lotta antifascista o partigiana, lo invitai ad andare con ordine ed a raccontarmi la vicenda che l’aveva coinvolto. E lui, da straordinario narratore di se stesso, non si fece pregare, facendo ricorso al meglio delle sue capacità fabulatorie.
Il 9 settembre del 1943 gli abitanti di Scandale, che, come ogni mattina si stavano preparando al lavoro nei campi o nelle botteghe artigiane, si accorsero con somma meraviglia che la strada principale del paese era occupata da un gruppetto di soldati tedeschi, preceduti da un’ autoblindo.
Scandale non si trovava su una grande via di comunicazione e non ci volle molto a capire che con tutta probabilità quei soldati, dall’aspetto tutt’altro che marziale, in realtà si erano sbandati e cercavano solo di proseguire con ogni mezzo nella loro ritirata verso il nord. Un soldato tedesco chiese qualcosa a gesti ad un contadino che si trovava a passare, ma quest’ultimo, impaurito, spronò il suo mulo e sparì velocemente. Altre persone, superata la diffidenza iniziale, si accostarono e capirono che i soldati volevano solo, se possibile, comprare qualcosa da mangiare. Non ci fu nessuna manifestazione di ostilità nei loro confronti. I soldati, una quindicina in tutto, furono accompagnati ad un negozio, dove poterono rifornirsi del poco che era possibile avere in quei tempi calamitosi.
Un codazzo di bambini incuriositi e quasi divertiti li seguiva. I soldati si procurarono soprattutto del pane, molto pane, ma un grosso problema nacque al momento di pagare. Uno di loro, lentamente, poggiò la mano sulla tasca posteriore, quasi volesse prendere la pistola e procurando un po’ di apprensione nei presenti. Invece si limitò a prendere il portafogli e ne estrasse dei marchi tedeschi intonsi, nuovissimi, che il bottegaio di Scandale non conosceva, perché non ne aveva mai visti prima. Non li accettò, ma i Tedeschi non avevano altro denaro e si rifiutarono di restituire quel cibo per loro preziosissimo. Ne nacque un’animata discussione che vide i Tedeschi andar via senza pagare e, nel parapiglia che ne seguì, un bambino di sei anni, uno solo, lui, il bambino Franco Tribelli, scagliò una pietra. La quale volteggiò nell’aria, roteò, seguì una morbida parabola prima ascendente, poi discendente e ultimò la sua traiettoria andando a posarsi, con tutta la forza di cui era capace, sui capelli biondi di un soldato teutonico.
Il quale, colpito, prima sbandò leggermente, facendosi sfuggire dalle mani un pane gelosamente custodito, poi si riprese subito, raccattò il pane, si mise una mano sulla testa, da cui fuoriusciva qualche goccia di sangue, e raggiunse velocemente i compagni in fuga.
Ora, a distanza di quasi trenta anni, Franco ritornava al suo paese per chiedere al sindaco una certificazione di quella sassata, di quel colpo ben assestato, che, pur nella sua modestia, era forse stato il primo sintomo di una lunga serie di altri colpi, ben più poderosi, che nell’arco di due anni avrebbero portato alla dissoluzione del grande Reich tedesco. Franco concluse il suo racconto dicendomi che il giorno dopo sarebbe stato in Comune e io, incuriosito, lo pregai di tenermi al corrente.
Ci rivedemmo qualche giorno dopo e, con un cenno d’intesa, gli chiesi come era andata. Egli non mi rispose e con fare solenne mi fece segno di pazientare un attimo. Mise mano ad una borsa, ne tirò fuori con compiacimento un foglio, intestato Comune di Scandale, e me lo porse. Lo aprii con una curiosità che mi divorava e potei leggere più o meno quanto segue:
Il Sindaco, da informazioni assunte, certifica che in data 9 settembre 1943 il bambino Franco Tribelli, nato il 9 dicembre 1936, all’età di anni 6 e mesi 11, con intrepido coraggio si scagliava contro l’invasore tedesco, esternando il suo smisurato amor di patria ed il suo smisurato amore per la libertà con il lancio di oggetto contundente che provocava scompiglio nell’esercito aggressore, determinandone una improvvisa fuga con conseguente liberazione della comunità di Scandale. La popolazione tutta, memore, ringrazia.
Entrambi manifestammo un sorriso complice, poi restituii il documento e ci abbracciammo per salutarci. Il giorno dopo il mio amico sarebbe ritornato a Torino.
Oggi Franco è felicemente sposato, ha due figli e lavora come primario internista in una clinica di Torino del Servizio Sanitario Nazionale. Una volta andai pure a trovarlo nella clinica, solo per il piacere di rivederlo. Dovetti fare un po’ di anticamera, ma mi accolse con cordialità e si intrattenne con me a lungo, suscitando anche le proteste di qualche paziente in attesa. Era attorniato da un codazzo di giovani assistenti e si dava un certo tono. Ogni tanto ritorna al paese.

Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale l’Espresso, 2012, pag. 152.

venerdì 26 aprile 2013

Gioacchino Murat


GIOACCHINO MURAT

La Bastide – Fortunière 1767 – Pizzo Calabro 1815
Re di Napoli

Gioacchino Murat
Da giovane intraprese la carriera ecclesiastica che abbandonò per arruolarsi nell’esercito. Nella repressione della rivolta realista del 1795, fu agli ordini di Napoleone, di cui sposò la sorella Carolina (1800). Si distinse nelle campagne d’Italia e d’Egitto. Fu comandante della guardia consolare e successivamente governatore di Parigi (1804). Maresciallo dell’impero, granduca di Berg e quindi re di Napoli (1808). Nel 1810 tentò, senza riuscirci, di conquistare la Sicilia: successivamente si dedicò a un’intensa attività riformatrice riducendo il brigantaggio, abolendo il feudalesimo, riorganizzando l’esercito, risanando le finanze, introducendo i codici napoleonici e creando un sistema scolastico statale. Nel 1812 partecipò alla campagna di Russia, ma per i continui dissapori con Napoleone rientrò a Napoli.
Temendo che dal congresso di Vienna, non gli venisse riconfermato il titolo regio, nel marzo 1815 dichiarò guerra all’Austria, lanciando da Rimini un famoso proclama in cui (lui francese) esortava gli italiani a lottare per l’indipendenza dagli stranieri. Sconfitto a Tolentino si rifugiò in Corsica, dove tentò di organizzare un estremo tentativo di riconquista del trono napoletano. Ma, sbarcato a Pizzo Calabro, fu catturato e fucilato dai soldati borbonici.

giovedì 25 aprile 2013

Scandale all'alba

Via Nazionale a Scandale in due foto By Ros


mercoledì 24 aprile 2013

Isola Capo Rizzuto

Isola Capo Rizzuto - Palazzo Barracco (foto Wikipedia)

Chiesa di Santa Maria Assunta (foto De Luca)

martedì 23 aprile 2013

Chiuse le indagini sulla Centrale Turbogas di Scandale

La Centrale Turbogas di Scandale in una foto By Ros del 2010.

Chiuse indagini su centrale Scandale

(ANSA)– Crotone – La Procura di Crotone ha chiuso le indagini nei confronti di 12 persone, tra professionisti e imprenditori, coinvolti nell’inchiesta chiamata Energopoli relativa alla presunta truffa da 15 milioni sulla mancata realizzazione del Contratto di programma di Scandale per la costruzione di una centrale a turbogas.
Gli indagati, tra i quali l’ex Ad di Barclay bank, sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere, riciclaggio, truffa, falso, estorsione e minacce.

Notizia pubblicata dall’Agenzia ANSA.it il 19 aprile 2013.

lunedì 22 aprile 2013

Habemus Presidente

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Presidente!
Eccellentissimo dominum Giorgio
Senatore Napolitano dello Stato italiano
qui sibi nomen imposuit Re Giorgio.



domenica 21 aprile 2013

Iginio Carvelli - Il 50° di sacerdozio di Don Renato

Don Renato in una foto pubblicata in passato da Area Locale

Discorso di Iginio Carvelli, pronunciato per la ricorrenza del 50° di sacerdozio di Don Renato (1947-1997).

Questo straordinario momento, carico di grande significato e di tanta emozione, mi fa sentire inadeguato di rappresentare e di esprime il pensiero del laicato cattolico di questa nostra piccola comunità scandalese.
Ma don Renato, in questa solennità, rimane, come sempre, con tutta la semplicità che ha caratterizzato la sua azione pastorale durante i suoi 50 anni di presenza in mezzo a noi. Mi aiuta Lui stesso, dunque a vincere questo senso di inadeguatezza e rendere presentabili le mie povere parole.
Non sappiamo quanto don Renato sia contento, se vediamo questo suo 50° come la sera del pastore quando conta il gregge e conta quante sono rimaste prigioniere negli anfratti e nei roveti, quante smarrite o nelle mani dei bracconieri!
Quanti di noi sono ancora lontani, quanti di noi hanno messo le mani all’aratro e sono tornati indietro, quanti sono stati vinti dal dubbio, quanti dall’egoismo, quanti ancora non riusciamo a convertirci con la sincerità del cuore e della mente.
Oggi è la sera di un giorno lungo 50 anni e il tuo raccolto, oh Padre, è forse scarso e molti mancano all’ovile.
Ma noi vorremmo testimoniarti che hai lavorato senza mai stancarti, che hai seminato con l’amore e la speranza del contadino, che hai inumidito le zolle del tuo campo anche con le lacrime dello sconforto, lacrime che non mancano mai nella vita di un sacerdote. Noi sappiamo tutto questo e per questo ti diciamo grazie anche se a volte o spesso siamo rimasti sordi alla tua parola, anche se non abbiamo saputo sfruttare il dono della grazia.
Il 50° del tuo sacerdozio è la grande occasione per noi tutti per ringraziarti a nome dei nostri fratelli che hanno visto la tua mano alzarsi sui loro sguardi in cerca di perdono; per esprimerti riconoscenza per quanto hai fatto per condurci alla conversione.
Ti ho visto, sere addietro, come tante volte, solo con i tuoi pensieri e i tuoi affanni sul colle del Condoleo e ho detto tra me: ecco Aronne, ecco Mosè. L’uomo che ha sfidato l’avversità, che ha compiuto il miracolo della fede , il miracolo dell’amore, nel cammino verso la terra promessa, un cammino di grandi prodigi, di tante rese, di molti tradimenti ma sempre e comunque in cammino di speranza .
È stato difficile per Mosè guidare il suo popolo. È stato difficile per don Renato  guidare questo popolo. Un popolo è sempre difficile perché c’è sempre un Caino e c’è sempre un Abele, c’è sempre un figlio sulla strada del ritorno e un figlio turbato dall’egoismo, dalla gelosia, dal rancore. E il sacerdote è padre dell’uno e dell’altro.
I 50 anni di sacerdozio di don Renato sono segnati da questi infiniti momenti di difficoltà in cui l’ho visto perdente, deluso, abbattuto, scoraggiato e forse sul punto di lasciare, abbandonare e fuggire. Quante volte le sue gridate e i suoi silenzi hanno nascosto l’amarezza della solitudine e il tormento dell’abbandono! Quante volte ha gridato con il salmista “Che cosa ti ho fatto, popolo mio, perché tu mi maltratti così”. Io l’ho sentito questo grido e mi è sembrato quello dell’uomo sconfitto, ma ogni volta  ho capito la grandezza del suo sacerdozio. Non c’è un prete vincente, c’è sempre un prete crocifisso. Forse per questo abbiamo visto don Renato sempre dove c’è stato un dolore. Nel dolore c’è il povero, c’è l’uomo, c’è il Cristo perché Lui, il Signore, è sulla strada del dolore dove cammina l’afflitto e il carcerato, l’orfano e l’ammalato, il debole e il perseguitato.
Ora una preghiera: Oh Signore, conceda vita lunga a don Renato perché questo popolo ha ancora bisogno della sua guida sicura sulla strada della verità e della carità.

Scorcio di Villa Condoleo a Scandale, sede della Casa di Carità.

venerdì 19 aprile 2013

Bernardino Telesio

Sopra, la statua di Bernardino Telesio davanti al Teatro comunale Alfonso Rendano di Cosenza

Bernardino Telesio nasce a Cosenza nel 1509. Da giovane si recò a Padova per studiare matematica, ottica e filosofia, laureandosi nel 1535.
Visse per lunghi periodi a Roma Bologna e Napoli, prima di ritirarsi nella sua Cosenza dove diresse l’Accademia Cosentina, chiamata Telesiana dopo la sua morte, avvenuta nel 1588.
La sua opera principale è De rerum natura iuxta propria principia (La natura secondo i suoi propri principi) in nove libri, la cui pubblicazione iniziò nel 1565 per finire nel 1586.
Tra le altre opere vanno ricordate il De his quae in aëre fiunt, il De terrae motibus, il De colorum generazione e il De mari, pubblicati nel 1570. Dopo la sua morte furono pubblicati il De comoetis et lacteo circulo, il De iride e il De usu rirespirationis.
Detto da Bacone «il primo degli uomini nuovi», Telesio elabora un organico sistema della filosofia della natura, partendo dal presupposto che per ottenere una visione vera delle cose occorre che questa visione sia diretta e non vincolata da concetti astratti “come il ragionamento degli antichi presumeva ad essi necessari”.
Nasce così l’anti-aristotelismo di Telesio. La natura va riconosciuta e studiata “in base a quello che appare” perché essa è completamente autonoma.

giovedì 18 aprile 2013

Come eravamo

Foto By Ros del 2008

mercoledì 17 aprile 2013

Massime e aforismi - Charles Baudelaire

Charles Baudelaire

“Bisogna pur lavorare, se non per gusto, almeno per disperazione.
Perché, tutto ben considerato, lavorare è meno noioso che divertirsi”

Charles Pierre Baudelaire
Parigi 1821 – Parigi 1867
Poeta, scrittore, critico letterario, giornalista, saggista.

martedì 16 aprile 2013

lunedì 15 aprile 2013

Rotemburg - Germania

Rotemburg (Germania)  in una foto pubblicata su Facebook

domenica 14 aprile 2013

Scandale - Pagine di storia


L’entrata del paese in una foto di Mastro Armando Gentile, scattata all’inizio del 1958, cioè (come mi disse qualche anno fa il figlio Orlando) pochi mesi prima che iniziassero i lavori per la costruzione della palazzina che c’è adesso. Probabilmente, quella che vedete sulla sinistra è forse l’unica immagine della vecchia “Forgia”.

Giuseppe Caridi

ASPETTI E MOMENTI DELLA VITA DI UN CASALE RIPOPOLATO:
SCANDALE NEL SEICENTO

Nonostante i primi insediamenti umani nel suo territorio si facciano risalire ai tempi preistorici, estremamente scarse sono le notizie relative a Scandale prima del secolo XVI. Gli stessi eruditi calabresi del periodo vicereale, che pure sul passato più o meno recente di tante contrade della loro regione forniscono interessanti, anche se non sempre attendibili, informazioni, a proposito di questo centro, oggi comune in provincia di Catanzaro, si limitano a notare semplicemente che si trattava di un casale di Santa Severina. Così si esprimono infatti Gabriele Barrio, a metà del secolo XVI e, qualche decennio dopo, il Marafioti e il Nola Molisi. Giovanni Fiore, che scrive nella seconda metà del Seicento, aggiunge solo che Scandale ai suoi tempi era «abitazione civilissima». A tutt'oggi, mentre sulle vicende di altri centri dell'entroterra crotonese in qualche modo si è scritto — e mi riferisco, ad esempio, ai lavori di Salerno e Bernardo su Santa Severina e, più recentemente, di Maone su San Mauro — è probabilmente da attribuire proprio a questo silenzio pressoché completo delle fonti narrative, oltre che alla esiguità e difficoltosa reperibilità della documentazione superstite, la mancanza di una monografia su Scandale. Già situato a sud-est dell’ubicazione attuale, in località detta appunto «Scandale Vecchio», il casale di Scandale figura fra le 393 terre calabresi abitate nella seconda metà del Duecento.
La sua popolazione, secondo il Pardi, che si avvale di registri angioini oggi distrutti, conta 431 unità nel 1276. Quattro anni prima, nel 1272, signore feudale di Scandale risulta Guglielmo di Amendolea, barone di Calatabiano, già ribelle agli Svevi e compensato da Carlo I d'Angiò con ampie concessioni territoriali in Sicilia e Calabria.
Nel corso del Trecento la Calabria, come tutte le altre regioni dell'Europa occidentale, fu colpita da una gravissima crisi demografica, le cui cause più virulente furono la carestia del 1315 e la peste nera del 1348, che determinò la scomparsa di numerosi centri abitati. Nel 1505, benché fosse già in atto in campo demografico un’inversione di tendenza, dal Levamentum Foculariorum Regni, aggiornamento a fini fiscali della popolazione del Regno di Napoli operato dalla nuova monarchia spagnola, si rileva che la popolazione calabrese era distribuita in 245 terre, 148 in meno cioè rispetto a due secoli e mezzo prima. Scandale, come pure la vicina S. Mauro, fa parte di questi centri spopolati. Il suo territorio era stato infatti già da tempo assorbito da quello di Santa Severina, le cui vicende politico-amministrative avrebbe perciò seguito, come sua parte integrante, fino a metà del secolo XVI. Sappiamo pertanto che nel 1402 Scandale risulta infeudato a Nicolò Ruffo, marchese di Crotone e conte di Catanzaro, per passare, con la sua morte, alla figlia Enrichetta che lo recò in dote al marito Antonio Centelles. Nel novembre 1444, Scandale è indicato come casale disabitato di Santa .Severina nel privilegio con cui Alfonso il Magnanimo, a causa della ribellione del Centelles, revoca al demanio regio il territorio santaseverinese che, salvo una breve parentesi tra il 1462 e il 1466, sarebbe rimasto demaniale fino al 1496. Nell'ottobre di questo anno il re Federico d'Aragona concede ad Andrea Carafa, dietro il versamento di 9 mila ducati, la contea di Santa Severina, che oltre alla stessa città e ai suoi casali comprende Roccabernarda, Policastro, Le Castella e Cirò. Al Carafa — membro di una delle maggiori casate napoletane che in Calabria Ultra si divideva nei rami di Santa Severina e Roccella — la contea è confermata nel 1503 da Consalvo di Cordova e quindi, nel 1506 e 1507, da Ferdinando il Cattolico. Ulteriori conferme giungono al conte di Santa Severina nel 1516 e nel 1520 dall'imperatore Carlo V che, l'anno dopo, dispone in suo favore la reintegrazione dei beni feudali indebitamente sottratti.
Dal documento di reintegra risulta che Andrea Carafa possedeva la città di Santa Severina, i casali di Cutro e S. Giovanni Minagò e le terre di Roccabernarda, Le Castella, Ciro e S. Lucido. Nessuna menzione tra i casali santaseverinesi si trova quindi di Scandale, che è invece considerato feudo disabitato, al pari di S. Mauro, S. Stefano, S. Leone e Turrotio; si indicano inoltre i terreni in cui si articola, con la relativa estensione:

«Scandale piccolo», di 21 salmate (ogni salmata è equivalente a ha. 2,691).
«Lo Prato de la Torre di Scandale», di salmate 25.
Terre dette «Li Communi di Scandale», di salmate 50.
«Santo Elia», di salmate 60, tenuto in suffeudo dal nobile napoletano Antonio de Galluccio.
Tenuta di circa 50 salmate adibita dal conte a prato dei puledri delle sue mandrie.

Conferenza sulla storia di Scandale tenuta dal Prof. Giuseppe Caridi a Villa Condoleo il 16 maggio 1986. Il pezzo sopra è solo una piccola parte dell’articolo completo successivamente pubblicato dall’Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, anno LII (1985) – Roma, Tipografia della Pace 1987.

venerdì 12 aprile 2013

Quando Pasolini parlava male di Cutro

Palazzo del Comune a Cutro

Il 17 novembre 1957 il ragioniere Vincenzo Mancuso, sindaco del comune di Cutro querela Pasolini per "diffamazione a mezzo stampa".
La denuncia si riferisce ad un articolo dal titolo "La lunga strada di sabbia", facente parte di un reportage sulle spiagge italiane, pubblicato nel settembre del 1957 sul mensile "Successo". L'esposto del sindaco di Cutro si riferisce ad alcune espressioni contenute nell'articolo relative a impressioni tratte da Pasolini sul Sud del paese. In particolare, Pasolini riferendosi a Cutro dice:

"A un distendersi di dune gialle, in una specie d'altopiano, è il luogo che più mi impressiona di tutto il viaggio. È veramente il paese dei banditi, come si vede in certi western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano al loro atroce lavoro, c'è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia...".


giovedì 11 aprile 2013

Personaggi - Ninuzzo

Il nostro Ninuzzo in una foto By Ros
Foto di Cesare Grisi

Foto di Cesare Grisi

mercoledì 10 aprile 2013

Alberto Sordi

Alberto Sordi

"Voi state a sentire troppo quelli che dicono “ah le donne magre, con quello stile, con quella classe... magra magra magra deve essere la donna”, ma chi l’ha detto ao? quegli ometti che je piace l’osso, non sono ometti giusti. Io so romano, a noi ce piace la ciccia..."

ALBERTO SORDI
Roma 1920 – Roma 2003
Attore cinematografico, doppiatore e regista italiano.

Un americano a Roma

martedì 9 aprile 2013

Corazzo - Ricordi di un piccolo villaggio

Foto pubblicate sulla pagina Facebook dedicata a Corazzo

Famiglia Carvelli
Foto di Lucia Carvelli

lunedì 8 aprile 2013

A voi la precedenza

Sport estremi

domenica 7 aprile 2013

Maestri di Scandale nel 1949-1950

Al centro, la Maestra Luisa Cosentino (moglie di Nicola Tiano) in una foto del 1925 (Archivio Aprigliano).

Maestri di Scandale nell’anno scolastico 1949-1950

D’Alfonso Giuseppe..........5ª Mista: alunni 27 – maschi 11 – femmine 16
Sculco Vittorio...................1ª Maschile: alunni 33 –
Critelli Anna.......................1ª femminile: alunni 56 -
Mazza Rosaria...................2ª maschile: alunni 43
Di Paola Filomena..............2ª femminile: alunni 46
Cannozzo Francesco.........3ª maschile: alunni 49
Bevilacqua Lidia................3ª femminile: alunni 25
Regedo Wanda..................4ª Mista: alunni 46 – maschi 20 – femmine 26
Monsuto Anna...................5ª Mista: alunni 23 – maschi 12 – femmine 11

Scuola popolare 1949
Maschelli Rosa....................Alunni 28

Roma. A.N.I.M.I. (Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia), Archivio Rossi-Doria, Scandale, faldoni I-VI.

venerdì 5 aprile 2013

Il massacro dei Lumi

La Ghigliottina in un dipinto d'epoca.

La Vandea è nomen omen del massacro di innocenti, al pari della notte di San Bartolomeo, di Guernica, di Srebrenica. Eppure in Francia, a distanza di oltre due secoli, la Vandea resta uno scandalo difficile da maneggiare. La parola «Vandea» fino a pochi anni fa era sinonimo di cattolico reazionario. Sono i «chouans», gufi maledetti. Baciapile, nemici della Rivolu­zione, servi dei nobili, sanguinari.
Di Vandea si è tornati a parlare in Francia, in Parlamento, sui giornali e sugli schermi televisivi. L’Ump, il partito di opposizione, ha presentato in Assemblea nazionale un disegno di legge che ha lo scopo di ri­conoscere il «genocidio vandeano», che ebbe luogo, a più riprese, tra il 1793 e il 1796 per opera delle truppe rivoluziona­rie di Robespierre nei confronti degli abitanti della regione contadina della Vandea. I sostenitori della tesi del genocidio parlano di una «congiura del silenzio», in cui la politica e la storiografia avrebbero cospirato perché cadesse nell’oblio il grande sacrificio dei vandeani, colpevoli di aver difeso le loro convinzioni religio­se contro il nuovo potere ateo e giacobino. Le «colonne infami» repubblicane compirono spietati massacri contro i vandeani, lasciando sul terreno dai duecentocinquanta ai trecentomila morti.

«Se approvasse la proposta sul genocidio, la Repubblica accetterebbe per la prima volta di guardarsi allo specchio», ha scritto sulla rivista Causeur lo storico Frédéric Rouvillois. «Per la prima volta riconoscerebbe il terribile delitto che ha segnato l’inizio della propria storia». Di parere opposto lo storico della Rivoluzio­ne francese, Jean-Clément Martin: «I crimini sono crimini, ma manca la logica». Significa che i vandeani non furono sterminati in quanto tali, ma sono stati vitti­me di una guerra civile. Lo spiega così Alain Gerard: «La Rivoluzione non poteva ammettere che il popolo si ribellasse contro di lei. Per questo la Vandea doveva scomparire».

La tesi del genocidio è stata portata avanti da Reynald Secher, uno dei maggiori storici delle guerre vandeane, secondo il quale «quelle rappresaglie non corrispondono agli atti orribili, ma inevitabili, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga e atroce guerra, ma proprio a massacri premeditati, organizzati, pianificati, commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la volontà cosciente e proclamata di distruggere una regione ben definita e di sterminare tutto un popolo, di preferenza donne e bambini» («Il genocidio vandeano», EFFEDIEFFE Edizioni, 1989).

La Vandea oggi è mito e tabù, tanto che il massacro alla chiesa di Petit Luc a Roche sur Yon viene accostato a quello nazista di Oradour nel 1944. Il leader della gauche militante Jean-Luc Mélenchon ha protestato vivacemente per un programma televisivo andato in onda su France 3, dove Robespierre viene chiamato «il boia della Vandea» (le bourreau de la Vendée). Anche il settimanale Nouvel Obs attacca il documentario di Frank Ferrand, in cui le armate giacobine vengono accostate alle Einsatzgruppen naziste. I preti che insorgono in Vandea erano chiamati «corvi neri». Scortate da gendarmi mal vestiti, con la coccarda tricolore sui cappellacci, le carrette della Rivoluzione erano cariche di questi preti refrattari detti «insermentés», quelli che non hanno giurato, che hanno mantenuto fedeltà all’autorità del Pontefice, cancellata per decreto. Georges Jacques Danton avrebbe voluto fare un mazzetto di tutti i preti refrattari su cui si riusciva a mettere le mani, imbarcarli a Marsiglia e scaricarli da qualche parte sulle coste dello stato della chiesa, come una trentina di anni prima Sebastiào José de Carvalho y Melo, marchese di Pombal, illuminato primo ministro dell’illuminato re Giuseppe I, aveva tentato di fare con i gesuiti espulsi dal Portogallo.

Tutti i libri in latino, fossero pure i «Colloqui» di Erasmo da Rotterdam, finirono nel fuoco. I preti nella trappola di Rochefort furono più di quattrocento. Nelle loro ciotole di legno la Rivoluzione versò solo carne putrida, merluzzo andato a male, malsane fave di palude. L’acqua era infetta. A chi ne chiedeva di più, i fidati seguaci della Dea Ragione risponde­vano di servirsi pure, mostrando a dito l’oceano. Vi furono presto casi di delirium tremens, di follia. In poche settimane fu un’ecatombe di sacerdoti. I guardiani abbandonarono la nave. I morti venivano scaraventati in mare o seppelliti nella palude. Per non sbagliare qualcuno venne sepolto mentre ancora respirava.
In Vandea la guerra non ebbe un centro, ma era dappertutto, perché ovunque vi fosse un vandeano, fanciullo o adulto, uomo o donna che fosse, là per la Repubblica si trovava un «soldato nemico». Nessuna delle regole dell’antica arte militare fu rispettata in quella guerra, perché fu la «prima guerra moderna», in cui dei civili si fece carne da macello. In Vandea le armi principali furono le preghiere nelle chiese solitarie, le corone di rosario agli occhielli, i «sacri cuori» cuciti agli abiti, le processioni e le riunioni nei boschi, i giuramenti di rifiutarsi al reclutamento, i racconti dei miracoli, fu la rivolta di tutto un popolo, in cui le congiure erano na­scoste dietro l’altare di ogni borgo contadino. I sacerdoti officiarono nelle brughiere e nelle paludi. Per primi s’armano i contadini. Mentre altrove in Francia so­no state le classi superiori ad avere spinto il popolo, nella Vandea cristianissima è il popolo a incitare le classi superiori.

A dispetto di certa storiografia, i contadini della Vandea non erano monarchici più di altri, non furono supini sostenitori dell’Ancien Régime. Erano profondamente cattolici. L’origine di questa fedeltà vandeana alla chiesa ebbe radici antiche, affonda in un passato di simpatie calviniste e nell’opera di catechizzazione dei missionari della Compagnia di Maria e delle Figlie della Saggezza.
Il generale vandeano era un venditore ambulante. Si chiamava Jean Cathelineu, per tutti «il santo d’Anjou». È intento a impastare il pane, quando sente la voce che gli comanda di alzarsi e mettersi a capo di questa guerra santa. Guida una folla armata di falci, bastoni e pochi fucili, in cui le donne, nei campi e nei boschi, pregano in ginocchio per la vittoria dei loro mariti e figli. Da ogni angolo della regione si leva un augurio che è un grido di odio verso i giacobini e il loro ateismo. I vandeani conquistano le città e poi le abbandonano. La facoltà di dissolversi e ricomporsi è la loro forza e la loro debolezza. Guidati dal santo di Anjou attraversa­no a decine di migliaia la Loira per liberare Nantes, per coinvolgere nella loro guerra i fieri «chouans» realisti della Bre­tagna.

Papa Karol Wojtyla ha beatificato, durante il suo pontificato, 164 di questi «martiri» della Rivoluzione francese. Nel corso di una controversa visita in Vandea, pronunciò un discorso ben lontano dal revanchismo. Nel rendere onore ai vandeani caduti nell’impari lotta contro le armate illuministe, Giovanni Paolo II sottoli­neò la loro testimonianza di fede, ma tra­scurò, se non addirittura condannò, il senso politico della controrivoluzione. Forzando un po’ la storia, il Papa affermò che anche i vandeani «desideravano sincera­mente il necessario rinnovamento della società», circoscrisse alla difesa della libertà religiosa la loro ribellione, non tacque i «peccati» di cui anch’essi si erano macchiati nell’asprezza della lotta (sanguinose furono le rappresaglie vandeane contro i rivoluzionari).

Anche nella chiesa cattolica ci sono opinioni differenti sulla Vandea. Padre Giuseppe De Rosa sulla Civiltà Cattolica ad esempio ha scritto che la guerra di Vandea di due secoli fa andrebbe guardata con maggiore «spirito critico», senza farne una «bandiera» e, tanto meno, il «simbolo dell’autentico cristianesimo». Di diverso avviso l’arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, secondo il quale «in quanto è avvenuto in Vandea trovano le loro premesse le stragi che hanno insanguinato l’intero XX secolo in nome o di un assurdo ideale di giustizia, di un’aberrante esaltazione di una nazione o di una razza, o di un egoismo mascherato da civile comprensione».
La Vandea come preludio di Auschwitz, del Ruanda, del Gulag. Lo storico della Rivoluzione francese Jules Michelet par­la così dei vandeani: «Ci imbattiamo in un popolo sì stranamente cieco e sì bizzarramente sviato che si arma contro la Rivoluzione, sua madre. Scoppia nell’ovest la guerra empia dei preti». Anche un figlio dei Lumi come Andrè Glucksmann ha de­finito la Vandea «la prima Glasnost dopo giorni del Terrore».
È la rivelazione del male compiuto da Robespierre. E anche Jean Tulard, docente all’Università Paris IV ed esperto di Vandea, paragona le azioni dei giacobini agli eccidi ordinati da Stalin. Gli storici non amano i parago­ni con l’Olocausto. Ma della Vandea parlano come di un «popolicidio», mentre a lungo storici marxisti hanno letto la guerra di Vandea come una guerra della borghesia centralizzatrice delle città contro il popolo contadino.

Varrà la pena di ricordare che i vandeani sono stati sterminati con metodi non dissimili da quelli nazisti. Così si leg­ge sul Bollettino ufficiale della nazione: «Bisogna che i briganti di Vandea siano sterminati prima della fine di ottobre. La salvezza della patria lo richiede». I vandeani sono considerati degli «ominidi», delle sottospecie di uomini, e in quanto tali non aventi diritto a un territorio.
Il nome stesso Vandea viene eliminato, deve scomparire. Si assegna un nuovo nome alla Vandea chiamandola «diparti­mento Vendicato», per esprimere appunto questa volontà di ripopolare quella parte di Francia un tempo abitata da «cat­tivi francesi».

Quello della Vandea è il primo genoci­dio della storia ideologica del mondo contemporaneo. Le Colonne infernali, tagliagole al comando del generale Louis Marie Turreau, devastarono la regione con feroce acribia cartesiana. Fucilazioni, annegamenti, falò di parrocchie zeppe di civili, camere a gas. C’era l’onta di un pezzo di Francia che aveva osato levarsi contro la volonté générale, ma anche il diffondersi d’idee malthusiane in una Francia attanagliata dalla fame per colpa della stessa rivoluzione. Così i giacobini concepirono, votarono all’unanimità e realizzarono l’annientamento di un gruppo umano religiosamente identificabile. Con ben due leggi, scritte e conservate negli archivi militari: il 1° agosto si decise la distruzione del territorio, degli abitati, delle foreste e dell’economia locale; il 1° ottobre si ordinò lo sterminio degli abitanti, prima le donne («solchi riproduttori») poi i bambini. Leggi in vigore fino alla caduta di Robespierre, nel luglio 1794. Tutto come Hitler prima di Hitler.

Si usò in Vandea il termine «race»: un vocabolo che, di conio illuminista (Voltaire, Buffon, l’Encyclopédie), produsse lì subito l’idea di una «race maudite» da estirpare. Bertrand Barè- re, membro del «Comité de salut public», gridava dalla tribuna: «Quelle campagne ribelli sono il cancro che divora il cuore della Repubblica francese».
Quanti furono i morti? Un vandeano su tre? Centoventimila o seicentomila, come sostiene lo storico Pierre Chaunu? «Qual­siasi rivoluzione scatena negli uomini gli istinti della più elementare barbarie, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio», disse il grande scrittore russo Aleksandr Solzenicyn quando inaugurò a Lucs-sur-Boulogne un memoriale dedicato ai martiri del massacro perpetrato in questa piccola località dalle truppe re­pubblicane del generale Cordelier. In poche ore, fra il 28 febbraio e il primo marzo del 1794, furono uccise 564 persone, fra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni.
«Il XX secolo ha notevolmente ottenebrato l’aureola romantica della rivoluzione del XVIII secolo», disse ancora l’autore di «Arcipelago Gulag».

Nonostante le esecuzioni sommarie di Angers, nonostante le «noyades», gli annegamenti notturni a Nantes, in cui senza processo in due mesi vennero gettati nell’estuario della Loira da due a tremila tra preti «refrattari», la resistenza della Vandea non venne domata. Per vincere i vandeani, caduto il Comitato di salute pubblica, la Rivoluzione pensò di ricorrere a «la douceur», alla dolcezza. Si consigliò ai soldati dalla casacca azzurra di partecipare alle funzioni nei villaggi, di rispettare i preti e la fede della povera gente. Alla fine era la Vandea che aveva vinto, seppure da un immenso cimitero.
Al termine della guerra, il generale francese Joseph Westermann spedì una breve lettera al Comitato di salute pubblica: «Non c’è più nessuna Vandea. Secon­do gli ordini che mi avete dato, ho massacrato i bambini sotto i cavalli e le donne non daranno più alla luce briganti. Non ho prigionieri. Li ho sterminati tutti». Sembra un inveramento delle parole pronunciate negli anni del Terrore dal celebre moralista Chamfort: «La Rivoluzione è un cane randagio che nessuno osa fermare».

Articolo del giornalista Giulio Meotti su Il Foglio del 18 Marzo 2013

giovedì 4 aprile 2013

martedì 2 aprile 2013

Scandale - Foto dei Luminari di San Giuseppe

Serata di San Giuseppe in tre foto  di Cesare Grisi



Scandale di notte

Scandale di notte in tre foto By Ros


lunedì 1 aprile 2013

Città del Vaticano - Guardie Svizzere

Guardie Svizzere della Città del Vaticano