domenica 31 ottobre 2010

“Gli scarpari”, di Iginio Carvelli

Sopra, mastro Renato Muraca, detto “i da Rizza”. Dopo aver sposato Margherita, figlia di Attilio Cirillo, la famiglia si trasferì a Milano nel quartiere Quarto Oggiaro, dove misero in piedi una rivendita di scarpe nei mercati all’aperto. La foto, scattata a Scandale nel 1955, fa parte del libro di Manlio Rossi Doria, Un paese di Calabria, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2007 (a cura di Michele De Benedictis).


“Negli anni Quaranta, a Scandale, gli scarpari erano una quindicina. Una media di uno ogni cinquanta famiglie. La produzione delle scarpe avveniva su ordinazione e la lavorazione esclusivamente a mano.

Alcuni scarpari non erano capaci di “fare le scarpe nuove”, cioè di sana pianta, e si limitavano a risolare e a rattoppare. La bottega di solito era nella stessa abitazione. Il deschetto, chiamato “u bancareddru” era situato di rimpetto alla porta per sfruttare la luce diretta.

Gli scarpari erano: mastro Quintino, mastro Ntoni i Cristina, mastro Mario Cirillo, mastro Nicola i piruni, mastro Peppino da rizza, mastro Franchino da caccurisi, mastro Bruno, mastro Ntoni Marazzita, mastro Modesto, mastro Ntoni da spineddrisa, mastro Mario Rizzuto, mastro Vicienzu da vipirara, mastro Franciscu u pulicastrisi.

Nessuno chiamava mastro “a Ntoni i colina” e “a re Giovanni”, forse perché poveri ciabattini in grado di riparare alla meno peggio solo le scarpe stravecchie. [...]

Gli scarpari, rappresentavano il sapere della piccola comunità scandalese In una massa di analfabeti, spiccavano loro, gli scarpari, che sapevano leggere, scrivere e fare i conti. Per le lezioni politiche o amministrative, venivano “precettati” e assegnati ai seggi elettorali come scrutatori, in quanto erano quasi gli unici in grado di svolgere tali funzioni. [...]

L’aneddotica a carico dei nostri scarpari non è scarsa.

Di mastro Quintino si racconta che una volta fece un elegante paio di scarpini per un invalido di guerra, costretto alla sedia a rotelle, chiamato il Piparo. Questi, nonostante le sue condizioni fisiche, era persona spavalda e faceva sfoggio delle sue possibilità economiche derivanti della sua pensione di grande invalido. Il Piparo fu il primo ad acquistare il grammofono e poi la radio. Apriva porte e finestre per fare ascoltare la “musica” ai vicini di casa e ai passanti.

Un giorno il figlio volle spararsi la posa con le scarpe brillanti che mastro Quintino aveva fatto per il Piparo. Siccome pioveva, la pianta delle scarpe, a contatto con l’acqua, incominciò a spappolarsi, tanto che il giovanotto dovette rientrare a casa a piedi nudi. Invece della suola, mastro Quintino aveva adoperato e mascherato un rigido cartone che normalmente serviva per le solette interne delle scarpe.

Il Piparo, infuriato affrontò e rinfacciò l’inganno a mastro Quintino che, senza scomporsi e con ironia, spiegò: “a scarpa l’haiu fatta ppi tia e no ppi u guagliuni”.


Passo del libro di Iginio Carvelli, Rughe di pietra, Piccole storie di un paese calabrese (Scandale), Rubbettino Editore, 1995, p. 79.