venerdì 30 aprile 2010

Gioacchino da Fiore

L’Abbazia Florense di San Giovanni in Fiore. Nella foto sotto, l’interno.


L’escatologismo del XIII secolo, cioè tutto quello che riguarda la fine dell’uomo e del mondo, ha la sua radice in Gioacchino da Fiore che in alcuni trattati latini espone dottrine basate su una concezione teologica della storia.

Tenendo presente che sui blog gli articoli troppo lunghi li leggono in pochi, non c’è di meglio che sintetizzare, riportando quello che scrive a pagina 141 lo storico Augusto Placanica nella sua Storia della Calabria, dall’antichità ai giorni nostri, pubblicata dalla Donzelli Editore nel 1999.

“È a Gioacchino da Fiore che la Calabria deve la maggiore notorietà universale, almeno per quel che concerne il Medioevo. Nato, tra il 1130 e il 1135, a Celico nei pressi di Cosenza, da padre notaio, probabilmente di ascendenza ebraica, Gioacchino si recò a Costantinopoli e a Gerusalemme, da dove, convertitosi per essere scampato a una pestilenza, tornò in Calabria. Qui, dopo un breve soggiorno al monastero della Sambucina, nei pressi di Luzzi, passò al monastero di Santa Maria di Corazzo, vicino all’alto corso del Corace alle pendici della Sila piccola, dove divenne sacerdote e fu eletto abate nel 1177. Frequentatore e amico di vari papi, da Lucio III, nel 1184, Gioacchino ottenne l’autorizzazione a scrivere di materie religiose; fu poi Urbano III a esortarlo a un commento dell’Apocalisse di Giovanni; Celestino II nel 1196 approvò la regola dell’ordine monastico che Gioacchino stava introducendo in Calabria, con la prima sede a San Giovanni in Fiore. Il novo ordine, detto dei Florensi, ottenne appoggio da Onorio III, Gregorio IX, Alessandro IV, e beni e privilegi dall’imperatore Enrico VI (l’ordine, per via di successive decadenze, sarebbe confluito in quello dei Cistercensi nel 1570). Morto nel 1202, nel monastero di San Martino di Canale, vicino a Cosenza, Gioacchino fu traslato a San Giovanni in Fiore, dove, da allora in poi, fu venerato come santo. Ma la sua canonizzazione, attivata nel 1346 (su questo Dante era stato presago), non ebbe esito, anche per via dei sospetti sulla sua proclamata capacità profetica. […] Gioacchino vide le sue tesi profetiche, e le sue tensioni utopistiche, condannate nel IV concilio lateranense (1215), senza però che esse venissero inficiate di eresia. Ma l’apostolato gioachimita fu fertile di tensioni religiose e anche sociali, nel senso di ansia di riscatto, con grande influenza su settori o movimenti ereticali dai fraticelli ai flagellanti ai seguaci di Fra’ Dolcino: si spiega così la condanna che, come eretici ricevettero, a diversi anni dalla sua morte, taluni che si dicevano suoi seguaci, a cominciare da Gerardo da Borgo San Donnino, autore dell’Introductorium in Evangelium Aeternum, che è del 1255. Ma Dante, collocando Gioacchino nel cielo del Sole accanto a Bonaventura da Bagnorea, che dice (Paradiso XII, 140-1):


Rabano è qua, e lucemi da lato

il calavrese abate Gioacchino

di spirito profetico dotato


voleva appunto indicare la conciliazione delle terrene opinioni alla luce della suprema verità”.