Devastata al tempo della ribellione del Centelles, la "motta" nel 1451 era "dissabitata", contando solo 20 fuochi; trent'anni dopo, nel 1482, era concessa dal re Ferdinando a Lodovico de Rinaldo come casale "dishabitato". Nello stesso lasso di tempo veniva a mancare anche il vicino priorato di S. Pietro de Niffis, che in un documento del marzo 1479 è descritto come ridotto a semplice grancia, nella quale "conventus aut dignitas non est". Entrambi segni di un generale declino, dovuto sia alle vicende belliche legate alle rivolte contadine della metà del secolo, che alla fuga dai centri abitati per sfuggire alle tasse. San Mauro di Caravà che nel passato era stata autonoma da S. Severina, godendo di una giurisdizione separata, con un proprio capitano e banco di giustizia, all'inizio del Cinquecento diverrà uno dei feudi rustici del conte di Santa Severina Andrea Carrafa. Bisognerà attendere i primi decenni del Cinquecento per trovare il nuovo abitato, fondato al tempo di Galeotto Carrafa sul pianoro di una collina a tre miglia dal fiume Tacina ed a mezzo miglio a tramontana dal vecchio abitato, dove a ricordo rimarrà l'antica chiesa della SS. Annunciata di Caravà. Con il ripopolamento San Mauro diverrà un semplice casale di Santa Severina, anche se la nascita del nuovo abitato sembra essere stata dettata, più che dall'intento di valorizzare un feudo rustico, dall'esigenza militare di proteggere la città di Santa Severina da possibili incursioni turche.
Da alcuni documenti sembra che il ripopolamento di Santo Mauro sia avvenuto tra il 1538 ed il 1545. L’undici marzo 1538 il viceré Don Pedro de Toledo accoglieva la richiesta avanzata dal conte Galeotto Caraffa di poter smembrare e vendere alcune gabelle del feudo di Santa Severina come suffeudali; a quella data il casale di Santo Mauro non esisteva ancora.
Da quanto sopra esposto, soprattutto tenendo conto del conteggio dei fuochi, si può avanzare l’ipotesi che il ripopolamento del casale, avvenuto al tempo di Galeotto Carrafa con l’intento di ripopolare, disboscare e mettere a coltura granaria parte del suo feudo, fu dapprima opera di un gruppo di famiglie albanesi di rito greco. A queste in seguito si aggiunsero delle famiglie italiane di rito latino. Tale affermazione è confermata dal fatto che negli anni 1546 e 1547 l’albanese Costa Scurco aveva in fitto la gabella di Santo Mauro, appartenente alla mensa arcivescovile di Santa Severina, e che ancora nel 1564 l’arciprete di Santo Mauro doveva versare nel sinodo di Santa Anastasia un censo “duorum pullorum”, censo tipico dei preti greci dei casali di rito greco, mentre per i latini il versamento era di solito in carlini, come infatti avvenne quando nel 1579 l’arciprete latino del casale Alfonso de Rasis verso tre carlini. Altro elemento a favore della presenza di una popolazione di rito greco è la constatazione che nella visita ai luoghi della diocesi, compiuta nel giugno 1559 ai tempi dell’arcivescovo Gio. Battista Ursini da D. Joanne Thomasio Cerasia, cantore di Mileto, compaiono solamente S. Severina, Rocca Bernarda, Policastro, Mesoraca, Cutro e Santo Giovanni Minagò; il cantore quindi non visitò nessuno dei casali dove erano presenti Albanesi di rito greco, cioè Scandale, Santo Mauro e Cotronei. A quel tempo i casali, dove gli abitanti praticavano il rito greco, erano autonomi ed esenti per privilegio dalla visita e da ogni prestazione dovuta all’ordinario del luogo. L’arrivo delle famiglie italiane avvenne senz’altro tra il 1545 ed il 1561 e con esse arrivarono nel casale anche l’arciprete, le decime ed lo “ius mortuorum”.
Parte di un lungo articolo dello storico Andrea Pesavento.