Scandale 1960. A Piazza San Francesco si gira Il Brigante - Foto di un giornale dell'epoca |
IL BRIGANTE
Il film è evidentemente politico, ma
non politicizzato. Racconta cose che verranno fuori col tempo. Anticipa quel
che succederà più tardi, quella opposizione a "muro di gomma" contro
riforme che prima o poi dovranno esser fatte. Gli anni che vanno dalla fine del
1944 al 1950 sono stati straordinari per un'Italia che si è davvero ricostruita
dalle fondamenta dopo il tormento della guerra subita e perduta. È stato un
tempo, ricorda Castellani, di grande comunicazione tra la gente, di grande
carità nei rapporti umani a partire dal momento dell'invasione tedesca. Sono
stati tempi in cui per superare un'angoscia o una paura bastava bussare a una
porta qualsiasi. È stato il tempo del sentirsi uniti per fronteggiare qualcosa
che incombeva dall'esterno. A ciò si aggiunga la propaganda alleata che faceva
leva sulla libertà, sul mondo nuovo, sull'utopia di ricominciare la storia da
zero. Ideali che negli americani erano forse abbastanza sinceri, in altri molto
meno. In realtà, si riteneva veramente che in uno o due lustri sarebbe stato
possibile rifare il mondo. In questo clima nacque Due soldi di speranza. Poi, a
poco a poco, ci si accorge che è tutta un'illusione. Nessun Paese, nessuna
società, forse, può cambiare in dieci anni. La società non si cambia mutando le
leggi, ma cambiando gli uomini; e per cambiare gli uomini, per dirozzarli, per
istruirli, per migliorarli ci vogliono intere generazioni. È questa la
delusione che Castellani intende esprimere con Il brigante. Il film è una
favola, in cui tutto resta uguale malgrado gli sforzi degli uomini. È la storia
in cui un movimento – giusto o ingiusto, ma importante – come l'occupazione
delle terre finisce davanti alla resistenza passiva. La chiave del film è nella
sua parte più suggestiva: vediamo i contadini che hanno occupato le terre e si
sentono dire: «Restateci, ma chi esce non rientra», e non possono far niente.
Ecco perché il protagonista impazzisce, e si perde in una ribellione che in
sostanza non serve a nulla.
Il film, si diceva, subisce diversi
tagli. È tagliato anche nel finale, perché la scena sembra troppo violenta, di
un'atrocità spaventosa per tempi in cui si è ancora soliti usare la mano
leggera. Quel che della storia resta, comunque, è abbastanza eloquente circa le
intenzioni dell'autore. V'è anzitutto la Calabria, visitata e studiata
meticolosamente, e c'è la partecipazione profonda di un regista del nord al
dramma delle genti del sud. Le riprese durano a lungo, quasi un anno. Castellani
si appoggia alla splendida fotografia di un esordiente, Armando Nannuzzi, che
ha già lavorato con lui in ruoli più umili: come ragazzo di bottega addetto al
trasporto delle pellicola prima e come addetto ai fuochi e come operatore di
macchina poi.
La scelta degli interpreti comporta
qualche problema, tanto che alla resa dei conti Castellani non è completamente
soddisfatto del protagonista (aveva pensato in un primo tempo a Don Murray
oppure a Maurizio Arena), mentre è molto contento di colui che interpreta la
parte dell'uomo con due mogli e degli altri contadini assoldati per
l'occasione, non senza difficoltà, date le abitudini locali (succede perfino
che un fotografo, mandato in giro per collezionare volti tra i quali scegliere
gli interpreti, è denunciato ai carabinieri con l'accusa di voler fare una
"magarìa"). Per quanto riguarda il ragazzo-narratore, fortuna vuole
che le sequenze del film siano girate secondo l'ordine cronologico, perché egli
cresce rapidamente e visibilmente sotto gli occhi del regista. La parte della
ragazza è affidata a Serena Vergano, figlia di uno scrittore girovago e di una
pittrice, ex studentessa del liceo Parini, esponente della Milano-bene, che fa
un po' di fatica a inserirsi nel personaggio di una giovane della Calabria, una
terra che non ha mai visto. (...)
La critica non lesina complimenti.
Guglielmo Biraghi (“Il Messaggero”, 31 agosto 1961) parla di un «nobilissimo
film con molti numeri per piacere al pubblico: vigore e lirismo, intelligenza e
anima». Ma nella seconda parte « il dramma si gonfia e i personaggi da umani
tendono a farsi eroici... e quella che all'inizio, senza particolari pretese,
era una grande pittura d'ambiente minuziosamente e gustosamente tracciata,
allorché vuole coscientemente essere tale rischia di confondersi nel fumo di
moralità sociali alquanto incerte ». Gian Luigi Rondi (“Il tempo”, 31 agosto
1961) parla dal canto suo di «personaggi approssimativi e confusi», di «errori
di gusto e di stile» e di pleonasmi, ma apprezza «quelle pagine corali in cui il
regista ha profuso tensione drammatica e rigore realistico» e in generale «uno
stile in cui il gusto dell'immagine preziosa sapientemente si fonde al rispetto
per il dato reale e ad un ritmo che riesce quasi sempre a mantenersi agile e
sciolto». Forse ha nuociuto a Castellani l'affermazione fatta in una conferenza
stampa in Laguna di non aver voluto fare opera di critica storica né politica,
il che l'ha fatto ritrovare a corto di difensori d'ufficio.
La versione del film che arriva nelle
sale è più breve di un'ora rispetto a quella veneziana, già ridotta rispetto
all'originale. È così compromessa in maniera decisiva - annoterà Gian Piero
Brunetta nella Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni Ottanta (Roma, Editori
Riuniti, 1982, p. 722) - «l'intenzione generale di costruzione di un grande
affresco epico e corale di vita nella Calabria contadina negli anni tra
fascismo e dopoguerra». Ma aggiungerà che «Castellani subisce la sorte di altri
registi della sua generazione perché pretende di continuare a difendere un
proprio modello di cinema, senza accettare di essere rimesso in gioco dalla
contemporanea dinamica catastrofica dei significanti e dei significati».
Sergio Trasatti, Renato Castellani, Il
Castoro cinema,1-2/1984
Scandale 1960 - Eriprando Visconti, aiuto regista di Castellani |