domenica 13 novembre 2016

Padrone e Sotto - Racconto inedito di Ezio Scaramuzzino

L'entrata di Scandale in una foto del 1958 di mastro Armando Gentile. Sulla sinistra si intravede il famoso "biviere"

Sono vissuto al Paese fino all’età di 30 anni e, come ho già raccontato in altri testi ed in altre circostanze, ho dedicato molto tempo della mia vita al giuoco delle carte. Si giocava tanto allora, in attesa che il tempo e la vita sciogliessero il groviglio delle nostre speranze e delle nostre passioni ed in attesa che ognuno di noi potesse spiccare il volo verso altri lidi e verso altri destini.
Si giocava soprattutto a Poker, anche se questo giuoco era riservato alla notte ed ai luoghi privati; ma noi avevamo bisogno di giocare anche di giorno ed in questo caso il luogo deputato era il Bar Centrale, nella principale piazza di Scandale. Qui si giocava soprattutto a Terziglio e qualche volta, quando avevamo voglia di rilassarci e di giocare senza troppa fatica, non disdegnavamo di fare una partitina a Briscola o al più impegnativo Tressette.
In questo caso si giocava quasi sempre in sei, suddivisi in coppie, con i primi quattro che incominciavano la partita e gli ultimi due che subentravano alla coppia perdente, finché alla fine restavano due vincitori e quattro perdenti che pagavano da bere a tutti. Ma, a prescindere dalle vicende del giuoco, che non interessavano più di tanto, quello che maggiormente ci coinvolgeva era la fase finale dedicata alla bevuta, di birra per lo più, e che era regolata dal Padrone e dal Sotto.
Questi erano scelti e designati con un altro giuoco di breve durata, la Primiera, per cui chi otteneva il punteggio più alto diventava Padrone, mentre il secondo  diventava Sotto. Quest’ultima fase del giuoco aveva regole ferree, inderogabili, e, nella sua molteplice varietà di furbizie, ammiccamenti, spavalderie, rassegnazioni, sembrava quasi diventare una scuola di vita o almeno uno specchio, seppur deformato, della vita reale.
Il Padrone era padrone soltanto di una cosa: di bere lui stesso, quanto e come voleva e per tutto il resto dipendeva dal Sotto, che in tal modo finiva col diventare il vero arbitro della situazione. Solo il Sotto poteva proporre che bevesse lui stesso o qualcun altro, mentre il Padrone poteva solo replicare o controproporre e in tal modo, perché qualcuno potesse bere, era necessario il benestare di entrambi. Se qualcuno alla fine non era riuscito a bere nemmeno un goccio, si diceva che era rimasto “all’ombra”.
In questo scambio di inviti, finte proposte, giuochi di parole, ripicche e battibecchi si poteva sempre cogliere il riflesso delle antipatie personali, delle amicizie, delle invidie e non era raro il caso che ne nascessero dei rapporti improntati a inimicizia o a cordialità e stima reciproca, che poi avevano un seguito nella vita di ogni giorno.
Il giuoco era seguito anche dagli estranei, che apparentemente si limitavano ad assistere, ma che in realtà erano emotivamente coinvolti nel sottile gioco delle parti e nell’alterna fortuna di coloro che vi partecipavano.
Si vinceva o si perdeva, si beveva o si rimaneva “all’ombra”, ci si ubriacava qualche volta ed era comune opinione che era bravo soprattutto chi riusciva a far ubriacare qualcuno contro la sua volontà, perché gli inviti a bere non potevano essere rifiutati, oppure, meglio ancora, quasi senza che lui se ne rendesse pienamente conto.
Ai tavoli del Bar Centrale io ho preso le mie prime ubriacature, o “piche” come erano comunemente chiamate, e non mi ci voleva molto per ubriacarmi, perché, a differenza di quanto mi sarebbe accaduto in seguito, allora non reggevo l’alcool ed un paio di birre erano più che sufficienti per mandarmi in estasi.
Era allora parte del nostro gruppo Leonardo Audia, che non vedo da tanti anni e del quale conservo un grato e affettuoso ricordo. Noi lo chiamavamo anche Lusì (Lucie in francese) dal nome di un personaggio di Morti senza tomba, un dramma di Jean Paul Sartre, che noi, pur di fare qualcosa di diverso, avevamo deciso di rappresentare. Erano i primi anni ‘60, era la prima volta che al paese si faceva qualcosa del genere e noi, non riuscendo a trovare qualche ragazza disponibile ad interpretare l’unica parte femminile del testo, costringemmo quasi Leonardo a vestirsi da donna e ad interpretare il ruolo drammatico di Lucie, cosa che egli fece molto bene e con grande disinvoltura. Ma si tratta di una storia che mi riprometto di raccontare in futuro con ben altro fiato e con ben altro impegno.
Bene. Leonardo era un ragazzo estroverso, gioviale e spavaldo che non si tirava mai indietro quando si trattava di bere. Una sera, d’accordo con l’altro mio grande amico Romano Cizza, io Padrone e lui Sotto, lo costringemmo a bere qualcosa come 7 o 8 birre. Leonardo bevve con apparente disinvoltura, ma, al momento di accomiatarci, ci accorgemmo che barcollava vistosamente.
-Facciamo quattro passi, ci chiese Leonardo;
-D’accordo, rispondemmo noi, per fargli passare la sbornia, o farlo “rifinare” come si diceva allora;
-Arriviamo almeno fino alla villetta, replicò Leonardo;
-Ma tu resta in mezzo al gruppo, concludemmo e ci avviammo tutti.
Io e Romano gli stavamo alle costole, per evitargli qualche caduta sul selciato, ma, giunti  verso le prime case del paese, Leonardo approfittò di una nostra disattenzione, scartò a destra e si diresse  decisamente verso il “biviere” colà posto, dove a sera  si abbeveravano gli asini di ritorno dalla campagna.
-Voglio solo sciacquarmi e rinfrescarmi un po’ la faccia, incominciò a protestare, gridando.  Ma non l’avesse mai fatto! Perse l’equilibrio, barcollò paurosamente e finì disteso nell’ ampia  vasca completamente ricolma d’acqua, dove lo ripescammo con qualche difficoltà.
Per fortuna non faceva molto freddo (si era a settembre) e Leonardo, inzuppato come un pesce, dopo aver aggiunto alla birra qualche abbondante sorsata d'acqua destinata agli asini, fu sistemato e trasportato a braccia. Ogni tanto si lamentava in uno stato di semiincoscienza e un paio di volte ebbe bisogno di rigirarsi e di lanciare dalla bocca una poltiglia che rischiò di colpire in pieno qualcuno di noi. Intanto si era formato uno strano corteo, con l’aggiunta di molti bambini, che si erano accodati con l’intento di fare caciara. Alcuni si affacciavano alle porte e alle finestre e, nel vedere quella insolita processione con Leonardo trasportato a braccia, chiedevano allarmati che cosa fosse successo. Poi fu il turno di Nonna Betta, che, avendoci visti passare ed avendo temuto il peggio, bloccò il corteo ed incominciò a piangere ed a gridare come un’ossessa, sicché ci toccò spiegarle qualcosa, riaccompagnarla a casa sua ed affidarla alla cura di una nipote, tra gli schiamazzi dei monelli.
Cercammo di tranquillizzare tutti insomma, facendo chiaramente intendere che si trattava solo di una “pica”, anche se solenne. Alla fine, come Dio volle, riuscimmo a portare Leonardo fino a casa sua tra la paura di alcuni di noi, ma anche tra i lazzi, le risate e gli sberleffi di tanti altri.

P.S. Io non so e non ho idea di dove si trovi, dove viva oggi Leonardo Audia. Se per caso egli si trova a leggere questo racconto, lo prego di mettersi in contatto con me, in qualunque forma, con un commento in coda al racconto o al link su Facebook. Ciao, Leonardo.

Articolo, con due foto, pubblicato venerdì 11 novembre 2016 sul blog di Ezio Scaramuzzino