L'entrata di Scandale in una foto del 1958 di mastro Armando Gentile. Sulla sinistra si intravede il famoso "biviere" |
Sono
vissuto al Paese fino all’età di 30 anni e, come ho già raccontato in altri
testi ed in altre circostanze, ho dedicato molto tempo della mia vita al giuoco
delle carte. Si giocava tanto allora, in attesa che il tempo e la vita
sciogliessero il groviglio delle nostre speranze e delle nostre passioni ed in
attesa che ognuno di noi potesse spiccare il volo verso altri lidi e verso
altri destini.
Si
giocava soprattutto a Poker, anche se questo giuoco era riservato alla notte ed
ai luoghi privati; ma noi avevamo bisogno di giocare anche di giorno ed in
questo caso il luogo deputato era il Bar Centrale, nella principale piazza di
Scandale. Qui si giocava soprattutto a Terziglio e qualche volta, quando
avevamo voglia di rilassarci e di giocare senza troppa fatica, non disdegnavamo
di fare una partitina a Briscola o al più impegnativo Tressette.
In
questo caso si giocava quasi sempre in sei, suddivisi in coppie, con i primi
quattro che incominciavano la partita e gli ultimi due che subentravano alla
coppia perdente, finché alla fine restavano due vincitori e quattro perdenti
che pagavano da bere a tutti. Ma, a prescindere dalle vicende del giuoco, che
non interessavano più di tanto, quello che maggiormente ci coinvolgeva era la
fase finale dedicata alla bevuta, di birra per lo più, e che era regolata dal
Padrone e dal Sotto.
Questi
erano scelti e designati con un altro giuoco di breve durata, la Primiera, per
cui chi otteneva il punteggio più alto diventava Padrone, mentre il
secondo diventava Sotto. Quest’ultima
fase del giuoco aveva regole ferree, inderogabili, e, nella sua molteplice
varietà di furbizie, ammiccamenti, spavalderie, rassegnazioni, sembrava quasi
diventare una scuola di vita o almeno uno specchio, seppur deformato, della
vita reale.
Il
Padrone era padrone soltanto di una cosa: di bere lui stesso, quanto e come
voleva e per tutto il resto dipendeva dal Sotto, che in tal modo finiva col
diventare il vero arbitro della situazione. Solo il Sotto poteva proporre che
bevesse lui stesso o qualcun altro, mentre il Padrone poteva solo replicare o
controproporre e in tal modo, perché qualcuno potesse bere, era necessario il
benestare di entrambi. Se qualcuno alla fine non era riuscito a bere nemmeno un
goccio, si diceva che era rimasto “all’ombra”.
In
questo scambio di inviti, finte proposte, giuochi di parole, ripicche e
battibecchi si poteva sempre cogliere il riflesso delle antipatie personali,
delle amicizie, delle invidie e non era raro il caso che ne nascessero dei
rapporti improntati a inimicizia o a cordialità e stima reciproca, che poi avevano
un seguito nella vita di ogni giorno.
Il
giuoco era seguito anche dagli estranei, che apparentemente si limitavano ad
assistere, ma che in realtà erano emotivamente coinvolti nel sottile gioco
delle parti e nell’alterna fortuna di coloro che vi partecipavano.
Si
vinceva o si perdeva, si beveva o si rimaneva “all’ombra”, ci si ubriacava
qualche volta ed era comune opinione che era bravo soprattutto chi riusciva a
far ubriacare qualcuno contro la sua volontà, perché gli inviti a bere non
potevano essere rifiutati, oppure, meglio ancora, quasi senza che lui se ne
rendesse pienamente conto.
Ai
tavoli del Bar Centrale io ho preso le mie prime ubriacature, o “piche” come
erano comunemente chiamate, e non mi ci voleva molto per ubriacarmi, perché, a
differenza di quanto mi sarebbe accaduto in seguito, allora non reggevo
l’alcool ed un paio di birre erano più che sufficienti per mandarmi in estasi.
Era
allora parte del nostro gruppo Leonardo Audia, che non vedo da tanti anni e del
quale conservo un grato e affettuoso ricordo. Noi lo chiamavamo anche Lusì
(Lucie in francese) dal nome di un personaggio di Morti senza tomba, un dramma
di Jean Paul Sartre, che noi, pur di fare qualcosa di diverso, avevamo deciso
di rappresentare. Erano i primi anni ‘60, era la prima volta che al paese si
faceva qualcosa del genere e noi, non riuscendo a trovare qualche ragazza
disponibile ad interpretare l’unica parte femminile del testo, costringemmo
quasi Leonardo a vestirsi da donna e ad interpretare il ruolo drammatico di
Lucie, cosa che egli fece molto bene e con grande disinvoltura. Ma si tratta di
una storia che mi riprometto di raccontare in futuro con ben altro fiato e con
ben altro impegno.
Bene.
Leonardo era un ragazzo estroverso, gioviale e spavaldo che non si tirava mai indietro
quando si trattava di bere. Una sera, d’accordo con l’altro mio grande amico
Romano Cizza, io Padrone e lui Sotto, lo costringemmo a bere qualcosa come 7 o
8 birre. Leonardo bevve con apparente disinvoltura, ma, al momento di
accomiatarci, ci accorgemmo che barcollava vistosamente.
-Facciamo
quattro passi, ci chiese Leonardo;
-D’accordo,
rispondemmo noi, per fargli passare la sbornia, o farlo “rifinare” come si
diceva allora;
-Arriviamo
almeno fino alla villetta, replicò Leonardo;
-Ma
tu resta in mezzo al gruppo, concludemmo e ci avviammo tutti.
Io
e Romano gli stavamo alle costole, per evitargli qualche caduta sul selciato,
ma, giunti verso le prime case del
paese, Leonardo approfittò di una nostra disattenzione, scartò a destra e si
diresse decisamente verso il “biviere”
colà posto, dove a sera si abbeveravano
gli asini di ritorno dalla campagna.
-Voglio
solo sciacquarmi e rinfrescarmi un po’ la faccia, incominciò a protestare,
gridando. Ma non l’avesse mai fatto!
Perse l’equilibrio, barcollò paurosamente e finì disteso nell’ ampia vasca completamente ricolma d’acqua, dove lo
ripescammo con qualche difficoltà.
Per
fortuna non faceva molto freddo (si era a settembre) e Leonardo, inzuppato come
un pesce, dopo aver aggiunto alla birra qualche abbondante sorsata d'acqua
destinata agli asini, fu sistemato e trasportato a braccia. Ogni tanto si
lamentava in uno stato di semiincoscienza e un paio di volte ebbe bisogno di
rigirarsi e di lanciare dalla bocca una poltiglia che rischiò di colpire in pieno
qualcuno di noi. Intanto si era formato uno strano corteo, con l’aggiunta di
molti bambini, che si erano accodati con l’intento di fare caciara. Alcuni si
affacciavano alle porte e alle finestre e, nel vedere quella insolita
processione con Leonardo trasportato a braccia, chiedevano allarmati che cosa
fosse successo. Poi fu il turno di Nonna Betta, che, avendoci visti passare ed
avendo temuto il peggio, bloccò il corteo ed incominciò a piangere ed a gridare
come un’ossessa, sicché ci toccò spiegarle qualcosa, riaccompagnarla a casa sua
ed affidarla alla cura di una nipote, tra gli schiamazzi dei monelli.
Cercammo
di tranquillizzare tutti insomma, facendo chiaramente intendere che si trattava
solo di una “pica”, anche se solenne. Alla fine, come Dio volle, riuscimmo a
portare Leonardo fino a casa sua tra la paura di alcuni di noi, ma anche tra i
lazzi, le risate e gli sberleffi di tanti altri.
P.S.
Io non so e non ho idea di dove si trovi, dove viva oggi Leonardo Audia. Se per
caso egli si trova a leggere questo racconto, lo prego di mettersi in contatto
con me, in qualunque forma, con un commento in coda al racconto o al link su
Facebook. Ciao, Leonardo.
Articolo, con due foto, pubblicato venerdì 11 novembre 2016 sul blog di Ezio Scaramuzzino