Piazza Guglielmo Oberdan a Scandale in una foto d'epoca (Archivio Aprigliano) |
Partite di carte e di cuore
Si giocava soprattutto a carte allora a
Scandale. In un angolo del Bar Centrale io ed i miei amici davamo fondo alle
nostre energie, in attesa che la vita ci aprisse qualche spiraglio sul nostro
futuro. Eravamo giovani, disponevamo di pochi soldi, ma quei pochi soldi
avevamo il gusto di fregarceli a vicenda, in un andirivieni senza fine che per
il momento dava un po’ di sapore alle nostre giornate. Si incominciava già al mattino e si
giocavano delle interminabili partite di Terziglio. Alla fine si tiravano le somme, i soldi
passavano da una tasca all’altra e ci si salutava, dandoci appuntamento per il
pomeriggio. Così si viveva allora, tra partite a carte, sfottò, beffe e
dispetti. Intorno ai vari tavoli di Terziglio c’era sempre qualche spettatore,
alla giusta distanza ovviamente, perché non tutti i giocatori, specie nei momenti
di iella, tolleravano la presenza di qualcuno alle proprie spalle.
Era una giornata in cui tutto mi andava
per il verso giusto. Potevo anche giocare distrattamente, ma finivo per
vincere. Apparve alle nostre spalle un signore anziano, dall’età incerta, che
si mise a seguire il gioco. Ci facemmo dei cenni d’intesa, mentre lo
sconosciuto, avvicinandosi sempre di più, dava a vedere di essere molto interessato.
Arrivò a prendere una sedia e a sistemarsi tra i due giocatori che perdevano,
ma entrambi gli fecero capire che non era gradito, girando le carte ed impedendogli
di seguire. Finì col sistemarsi dietro di me, che non avevo di questi problemi,
anche perché quel giorno vincevo e forse avrei vinto anche giocando a carte scoperte.
Interrompemmo verso l’ora di pranzo, ma
alle due del pomeriggio ero già al Centrale, in attesa dell’arrivo di qualcun
altro. Ero stato il primo ad arrivare, come spesso mi capitava, e nell’attesa
avevo preso un mazzo di carte, che mi divertivo a mescolare continuamente
oppure a sistemare sul tavolo, in un abbozzo di Solitario, da interrompere ad
ogni evenienza. Guardavo sempre verso l’ingresso, in attesa dell’arrivo di
qualcuno, quando vidi entrare il signore sconosciuto del mattino. Mi vide solo
e si avvicinò, presentandosi: “Avvocato Barca, Giuseppe Barca, avvocato in pensione”,
disse.
Ero incuriosito, come sempre mi succede
quando mi si scopre uno spicchio di umanità. In pochi minuti mi raccontò gli
aspetti salienti della sua vita. Nato nel paese, era emigrato da giovane a
Milano, dove aveva studiato, si era laureato ed aveva esercitato. Sposato e
senza figli, aveva deciso di far ritorno “alla terra degli avi”, come diceva,
perché era diventato insofferente della vita di città. Aveva ereditato una villetta
alla periferia del paese e lì si era stabilito con la moglie da qualche giorno,
in attesa di ristrutturarla. Mi chiese anche se potevo indicargli il nome di
qualche impresa edile, cosa che feci ben volentieri, e, vista la mia
disponibilità, ritenne opportuno ricambiare con qualche complimento, dicendo
che mi aveva molto apprezzato al mattino tanto che, confessava, mi aveva subito
considerato un grande giocatore di Terziglio. La sua cordialità si spinse fino al
punto di chiedermi se ero disposto a fare una partita con lui, solo con lui.
Ero un po’ perplesso: l’esperienza mi suggeriva una certa diffidenza a giocare
con chi non conoscevo bene, ma accettai lo stesso. Eravamo solo in due e lui mi
chiese di giocare a Briscola, cosa che accettai senza alcuna difficoltà.
Stabilimmo la posta, cinquecento lire a
partita di 120 punti, con rivincita di altre cinquecento ed eventuale spareggio
finale di millecinquecento complessive.
Vinsi facilmente la prima partita e
rivinsi, seppur con qualche difficoltà, la seconda. L’avvocato mi chiese di
giocare ancora ed io accettai subito, anche perché nel frattempo le mie
perplessità erano del tutto svanite. Giocava male, distrattamente, senza
contare le carte e i punti e, in quelle condizioni, alla lunga era destinato a perdere.
La mia spavalderia mi indusse a perdere di proposito qualche partita, per illuderlo,
e non trascuravo di aggiungere di tanto in tanto che, se perdeva, era un po’ colpa
della iella che quel giorno lo perseguitava. Gli amici, che nel frattempo erano
arrivati, si limitavano ad osservare da lontano e capirono che quel giorno non
avrei giocato con loro e che, anzi, non dovevano proprio disturbare. Dopo
qualche ora di gioco mi trovavo a vincere cinquemila lire, una cifra interessante
per quei tempi. Il Barca a un certo punto si alzò, scostò la sedia, estrasse con
eleganza il suo portafogli, mi consegnò il denaro e, con l’atteggiamento e la solennità
di un cavaliere antico, mi chiese se il giorno successivo poteva avere l’onore di
una rivincita. Gli accordai la rivincita naturalmente e non solo quella. Avevo
capito che quel signore poteva alimentare a lungo le mie fonti di reddito, cosa
di cui approfittai con moderazione, ma a lungo e senza alcuno scrupolo.
Si era verso la fine degli anni
sessanta, in una calda giornata di giugno. Avevo giocato con lui per tutta la
mattina, ci eravamo lasciati per il pranzo ed io mi ritrovavo già con le carte
in mano, al pomeriggio, in attesa del suo arrivo. Avevo ultimato un primo Solitario
e stavo per iniziarne un secondo, quando arrivò trafelato Totò Trivieri, uno
dei miei amici, a gridare: “L’avvocato Barca è morto”. Tutti i presenti,
interrotta ogni cosa, ci dirigemmo quasi di corsa verso la casa del “defunto”.
La moglie ci accolse con molta trepidazione e ci introdusse in una stanza,
dove, su di un letto matrimoniale all’antica, in parte disfatto, il marito era
disteso, seminudo, ma ricomposto alla meglio.
L’avvocato non era per nulla morto, ma
respirava con difficoltà e faceva segno di avvertire un forte dolore al petto.
Non ci voleva molto a capire che si trattava di un infarto e che bisognava fare
qualcosa per cercare di salvargli la vita. Fu scartata l’ipotesi di chiamare il
medico del posto, che per altro con gli scarsi mezzi a sua disposizione si
sarebbe limitato a constatarne il decesso, e si decise di tentare il tutto per
tutto, trasportandolo direttamente all’ospedale di Crotone, distante una
ventina di kilometri. Si trovò subito un’auto adeguata, si
reclinò il sedile anteriore a fianco dell’autista e lì, per lungo, fu disteso
il malato, così com’era, seminudo, per non perdere tempo a rivestirlo. Ad
accompagnarlo nel tragitto fui scelto io, da tutti considerato il suo migliore
amico e anche come colui che più di ogni altro aveva l’obbligo di sentirsi riconoscente
e quasi in debito con lui. Mi sedetti sul sedile posteriore e, mentre lui si lamentava,
cercavo di consolarlo e gli massaggiavo il petto, cosa che sembrava calmarlo e
fargli piacere. Lo portai vivo al pronto soccorso, dove mi fermai quel giorno fino
a quando mi fu assicurato che ormai era da considerarsi fuori pericolo.
Al paese la vita aveva ripreso il suo
corso ed io mi ero rimesso a giocare a Terziglio con gli amici. Ma giocavo
spesso svogliatamente ed anzi qualche volta rifiutavo di giocare e stavo seduto
a prendere il fresco su una veranda che dominava la piazza principale. Era
passato circa un mese e, in un torrido pomeriggio di luglio, vidi fermare un’auto,
da cui lentamente e con molta difficoltà vidi scendere il Barca. Dimagrito e con
la pelle flaccida e cadente, avanzava verso di me, quasi irriconoscibile. Lo
invitai a sedere e lui mi sembrò quasi grato dell’invito. Mi dimostrai
premuroso e gli chiesi come stava. Parlò con voce stanca, come di chi non ha
più interesse alla vita.
“Grazie a te, mi disse, che sei stato
il mio migliore amico. Io non so se potrò ancora fare la vita di prima e soprattutto non
so se potrò ancora fare la partita a carte con te, perché i medici mi hanno
detto di evitare ogni emozione e quelle partite, anche se non lo davo a vedere,
erano per me un’emozione, forse una delle ultime emozioni della mia vita. Avevo
da dirti qualcosa e lo faccio adesso, prima che sia troppo tardi.
Intanto ti dico che quel pomeriggio,
quando mi hai atteso inutilmente, sarei arrivato comunque in ritardo, perché…ricordi
come mi hai trovato? Basta, tra uomini ci si capisce. E poi un’altra cosa
volevo dirti, alla quale tengo particolarmente. Lo so che forse ti meraviglierai, ma, per i soldi
che ho persi in tutti questi mesi giocando a carte, sono contento di averli
persi con te. Per fortuna, ho potuto mettere da parte un bel po’ di soldi nel
corso della mia vita e io a chi li debbo lasciare questi soldi? Non ho figli,
ho solo qualche nipote di mia moglie, che quasi non conosco neppure, sicché,
pur senza dirtelo, ti ho quasi adottato. Se ti avessi offerto dei soldi in
regalo, forse li avresti rifiutati per orgoglio. Ho fatto finta di perderli al
gioco: io sono stato contento di perderli e tu ti sei sentito orgoglioso di
vincerli. Certo, ho dovuto recitare un pochino, ma mi sono ritrovato bene nella
parte e non mi è dispiaciuto. Ho dovuto far finta di non saper giocare, di non
saper nemmeno tenere le carte in mano, di essere smemorato, con il rischio di
essere considerato una macchietta da te e dai tuoi amici. Ma ora sai come sono andate le cose. Se
poi un giorno vorrai sapere chi è stato veramente l’avvocato Barca, vallo a
chiedere in giro, nei circoli più esclusivi di Milano.
Questo volevo che tu sapessi. Se io non
dovessi farmi vedere al Centrale, ti aspetto. Potremo sempre fare un’altra
partita a briscola ed io sarò contento di interrompere per un attimo una
partita a scacchi, ben più importante, che da oggi sarò costretto a combattere con la nera signora della
morte”.
L’emozione e la commozione mi
impedirono di dire una qualunque parola. L’avvocato si alzò lentamente, si
avviò, si rimise in auto e sparì, per sempre”.
Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale
l’Espresso, 2012, pag. 132.