domenica 15 dicembre 2013

Ezio Scaramuzzino - Partite di carte e di cuore

Piazza Guglielmo Oberdan a Scandale in una foto d'epoca (Archivio Aprigliano)
Partite di carte e di cuore
Si giocava soprattutto a carte allora a Scandale. In un angolo del Bar Centrale io ed i miei amici davamo fondo alle nostre energie, in attesa che la vita ci aprisse qualche spiraglio sul nostro futuro. Eravamo giovani, disponevamo di pochi soldi, ma quei pochi soldi avevamo il gusto di fregarceli a vicenda, in un andirivieni senza fine che per il momento dava un po’ di sapore alle nostre giornate. Si incominciava già al mattino e si giocavano delle interminabili partite di Terziglio. Alla fine si tiravano le somme, i soldi passavano da una tasca all’altra e ci si salutava, dandoci appuntamento per il pomeriggio. Così si viveva allora, tra partite a carte, sfottò, beffe e dispetti. Intorno ai vari tavoli di Terziglio c’era sempre qualche spettatore, alla giusta distanza ovviamente, perché non tutti i giocatori, specie nei momenti di iella, tolleravano la presenza di qualcuno alle proprie spalle.
Era una giornata in cui tutto mi andava per il verso giusto. Potevo anche giocare distrattamente, ma finivo per vincere. Apparve alle nostre spalle un signore anziano, dall’età incerta, che si mise a seguire il gioco. Ci facemmo dei cenni d’intesa, mentre lo sconosciuto, avvicinandosi sempre di più, dava a vedere di essere molto interessato. Arrivò a prendere una sedia e a sistemarsi tra i due giocatori che perdevano, ma entrambi gli fecero capire che non era gradito, girando le carte ed impedendogli di seguire. Finì col sistemarsi dietro di me, che non avevo di questi problemi, anche perché quel giorno vincevo e forse avrei vinto anche giocando a carte scoperte.
Interrompemmo verso l’ora di pranzo, ma alle due del pomeriggio ero già al Centrale, in attesa dell’arrivo di qualcun altro. Ero stato il primo ad arrivare, come spesso mi capitava, e nell’attesa avevo preso un mazzo di carte, che mi divertivo a mescolare continuamente oppure a sistemare sul tavolo, in un abbozzo di Solitario, da interrompere ad ogni evenienza. Guardavo sempre verso l’ingresso, in attesa dell’arrivo di qualcuno, quando vidi entrare il signore sconosciuto del mattino. Mi vide solo e si avvicinò, presentandosi: “Avvocato Barca, Giuseppe Barca, avvocato in pensione”, disse.
Ero incuriosito, come sempre mi succede quando mi si scopre uno spicchio di umanità. In pochi minuti mi raccontò gli aspetti salienti della sua vita. Nato nel paese, era emigrato da giovane a Milano, dove aveva studiato, si era laureato ed aveva esercitato. Sposato e senza figli, aveva deciso di far ritorno “alla terra degli avi”, come diceva, perché era diventato insofferente della vita di città. Aveva ereditato una villetta alla periferia del paese e lì si era stabilito con la moglie da qualche giorno, in attesa di ristrutturarla. Mi chiese anche se potevo indicargli il nome di qualche impresa edile, cosa che feci ben volentieri, e, vista la mia disponibilità, ritenne opportuno ricambiare con qualche complimento, dicendo che mi aveva molto apprezzato al mattino tanto che, confessava, mi aveva subito considerato un grande giocatore di Terziglio. La sua cordialità si spinse fino al punto di chiedermi se ero disposto a fare una partita con lui, solo con lui. Ero un po’ perplesso: l’esperienza mi suggeriva una certa diffidenza a giocare con chi non conoscevo bene, ma accettai lo stesso. Eravamo solo in due e lui mi chiese di giocare a Briscola, cosa che accettai senza alcuna difficoltà.
Stabilimmo la posta, cinquecento lire a partita di 120 punti, con rivincita di altre cinquecento ed eventuale spareggio finale di millecinquecento complessive.
Vinsi facilmente la prima partita e rivinsi, seppur con qualche difficoltà, la seconda. L’avvocato mi chiese di giocare ancora ed io accettai subito, anche perché nel frattempo le mie perplessità erano del tutto svanite. Giocava male, distrattamente, senza contare le carte e i punti e, in quelle condizioni, alla lunga era destinato a perdere. La mia spavalderia mi indusse a perdere di proposito qualche partita, per illuderlo, e non trascuravo di aggiungere di tanto in tanto che, se perdeva, era un po’ colpa della iella che quel giorno lo perseguitava. Gli amici, che nel frattempo erano arrivati, si limitavano ad osservare da lontano e capirono che quel giorno non avrei giocato con loro e che, anzi, non dovevano proprio disturbare. Dopo qualche ora di gioco mi trovavo a vincere cinquemila lire, una cifra interessante per quei tempi. Il Barca a un certo punto si alzò, scostò la sedia, estrasse con eleganza il suo portafogli, mi consegnò il denaro e, con l’atteggiamento e la solennità di un cavaliere antico, mi chiese se il giorno successivo poteva avere l’onore di una rivincita. Gli accordai la rivincita naturalmente e non solo quella. Avevo capito che quel signore poteva alimentare a lungo le mie fonti di reddito, cosa di cui approfittai con moderazione, ma a lungo e senza alcuno scrupolo.
Si era verso la fine degli anni sessanta, in una calda giornata di giugno. Avevo giocato con lui per tutta la mattina, ci eravamo lasciati per il pranzo ed io mi ritrovavo già con le carte in mano, al pomeriggio, in attesa del suo arrivo. Avevo ultimato un primo Solitario e stavo per iniziarne un secondo, quando arrivò trafelato Totò Trivieri, uno dei miei amici, a gridare: “L’avvocato Barca è morto”. Tutti i presenti, interrotta ogni cosa, ci dirigemmo quasi di corsa verso la casa del “defunto”. La moglie ci accolse con molta trepidazione e ci introdusse in una stanza, dove, su di un letto matrimoniale all’antica, in parte disfatto, il marito era disteso, seminudo, ma ricomposto alla meglio.
L’avvocato non era per nulla morto, ma respirava con difficoltà e faceva segno di avvertire un forte dolore al petto. Non ci voleva molto a capire che si trattava di un infarto e che bisognava fare qualcosa per cercare di salvargli la vita. Fu scartata l’ipotesi di chiamare il medico del posto, che per altro con gli scarsi mezzi a sua disposizione si sarebbe limitato a constatarne il decesso, e si decise di tentare il tutto per tutto, trasportandolo direttamente all’ospedale di Crotone, distante una ventina di kilometri. Si trovò subito un’auto adeguata, si reclinò il sedile anteriore a fianco dell’autista e lì, per lungo, fu disteso il malato, così com’era, seminudo, per non perdere tempo a rivestirlo. Ad accompagnarlo nel tragitto fui scelto io, da tutti considerato il suo migliore amico e anche come colui che più di ogni altro aveva l’obbligo di sentirsi riconoscente e quasi in debito con lui. Mi sedetti sul sedile posteriore e, mentre lui si lamentava, cercavo di consolarlo e gli massaggiavo il petto, cosa che sembrava calmarlo e fargli piacere. Lo portai vivo al pronto soccorso, dove mi fermai quel giorno fino a quando mi fu assicurato che ormai era da considerarsi fuori pericolo.
Al paese la vita aveva ripreso il suo corso ed io mi ero rimesso a giocare a Terziglio con gli amici. Ma giocavo spesso svogliatamente ed anzi qualche volta rifiutavo di giocare e stavo seduto a prendere il fresco su una veranda che dominava la piazza principale. Era passato circa un mese e, in un torrido pomeriggio di luglio, vidi fermare un’auto, da cui lentamente e con molta difficoltà vidi scendere il Barca. Dimagrito e con la pelle flaccida e cadente, avanzava verso di me, quasi irriconoscibile. Lo invitai a sedere e lui mi sembrò quasi grato dell’invito. Mi dimostrai premuroso e gli chiesi come stava. Parlò con voce stanca, come di chi non ha più interesse alla vita.
“Grazie a te, mi disse, che sei stato il mio migliore amico. Io non so se potrò ancora fare la vita di prima e soprattutto non so se potrò ancora fare la partita a carte con te, perché i medici mi hanno detto di evitare ogni emozione e quelle partite, anche se non lo davo a vedere, erano per me un’emozione, forse una delle ultime emozioni della mia vita. Avevo da dirti qualcosa e lo faccio adesso, prima che sia troppo tardi.
Intanto ti dico che quel pomeriggio, quando mi hai atteso inutilmente, sarei arrivato comunque in ritardo, perché…ricordi come mi hai trovato? Basta, tra uomini ci si capisce. E poi un’altra cosa volevo dirti, alla quale tengo particolarmente. Lo so che forse ti meraviglierai, ma, per i soldi che ho persi in tutti questi mesi giocando a carte, sono contento di averli persi con te. Per fortuna, ho potuto mettere da parte un bel po’ di soldi nel corso della mia vita e io a chi li debbo lasciare questi soldi? Non ho figli, ho solo qualche nipote di mia moglie, che quasi non conosco neppure, sicché, pur senza dirtelo, ti ho quasi adottato. Se ti avessi offerto dei soldi in regalo, forse li avresti rifiutati per orgoglio. Ho fatto finta di perderli al gioco: io sono stato contento di perderli e tu ti sei sentito orgoglioso di vincerli. Certo, ho dovuto recitare un pochino, ma mi sono ritrovato bene nella parte e non mi è dispiaciuto. Ho dovuto far finta di non saper giocare, di non saper nemmeno tenere le carte in mano, di essere smemorato, con il rischio di essere considerato una macchietta da te e dai tuoi amici. Ma ora sai come sono andate le cose. Se poi un giorno vorrai sapere chi è stato veramente l’avvocato Barca, vallo a chiedere in giro, nei circoli più esclusivi di Milano.
Questo volevo che tu sapessi. Se io non dovessi farmi vedere al Centrale, ti aspetto. Potremo sempre fare un’altra partita a briscola ed io sarò contento di interrompere per un attimo una partita a scacchi, ben più importante, che da oggi sarò costretto a combattere con la nera signora della morte”.
L’emozione e la commozione mi impedirono di dire una qualunque parola. L’avvocato si alzò lentamente, si avviò, si rimise in auto e sparì, per sempre”.

Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale l’Espresso, 2012, pag. 132.