domenica 20 ottobre 2013

Ezio Scaramuzzino - LA VISITA

Scorcio del cimitero di Scandale in una foto By Ros

LA VISITA

I miei vecchi riposano, già da tanto tempo, nel piccolo cimitero di Scandale. Ci vado ogni anno, come tutti, nel periodo della commemorazione dei defunti. Evito di andarci nei momenti di maggiore ressa e di solito faccio passare qualche giorno. Quando arrivo, vado diritto alle tombe, depongo qualche fiore nei vasi già pieni per precedenti visite di altri familiari e poi mi soffermo un po’, davanti agli ovali dei loro volti con lo sguardo perso nel vuoto.
Infine faccio un giro tra i viali solitari del cimitero, incontro qualche sconosciuto, più raramente qualche vecchio amico con cui scambio un saluto affettuoso, mi soffermo con attenzione ad osservare le tombe dei trapassati dell’ultimo anno. È una rassegna a volte meravigliata, a volte curiosa, a volte dolorosa: mi scorrono davanti agli occhi i volti di persone sconosciute, oppure amiche e familiari.
L’ultima volta, già da lontano, ho intravisto un volto noto, quello di Mario Panza. La foto lo rappresentava sorridente e d’altra parte egli aveva sempre sorriso nel corso della sua vita, anzi si può dire che fosse vissuto ridendo o sorridendo. Avvicinatomi, ho letto la data di nascita, 29 febbraio 1936, ma ho visto che mancava quella della morte. Non sapevo spiegarmi la cosa, ma, girando intorno alla tomba, ho notato un lato non rifinito, in mattoni grezzi. Ho capito che il caro, vecchio Mario non era per nulla scomparso e che soltanto, secondo un’abitudine molto diffusa dalle nostre parti, si era già preparata la tomba, per eliminare, o ridurre al minimo, il fastidio dei superstiti.
Mario Panza abitava vicino casa mia ed era un abile cercatore di funghi, di verdura selvatica e di tutto ciò che cresce in natura. Raccogliendo e rivendendo funghi, lumache e cicoria aveva mantenuto una famiglia, moglie e una figlia. Di quest’ultima si diceva che non fosse veramente sua figlia e comunque essa si dava arie da cittadina e disdegnava i modi rustici e contadineschi dei genitori.
Ricordo che una volta, avevo forse una decina d’anni, Mario mi portò con sé a cercar funghi. Egli mi guidava attraverso gli anfratti ed avevamo già fatto una buona raccolta, quando, dietro un cespuglio, trovammo due persone allacciate ed una di queste era la figlia. A sera, ritornato a casa, gridò ed imprecò a lungo contro quella figlia e fu forse l’unica volta della sua vita, perché per il resto egli aveva un eterno sorriso stampato sulle labbra. Sorrideva di quella sua strana data di nascita, 29 febbraio, anno bisestile, che lo induceva a dire che in realtà egli faceva un anno di età ogni quattro anni. Sorrideva di quel suo strano mestiere, che riteneva un po’ comico, per via del fatto che, come diceva, egli si limitava a vendere ciò che la natura produceva spontaneamente e che chiunque, con un po’ di buona volontà, avrebbe potuto raccogliere da solo.
Lo scorso Novembre, ultimato il giro al cimitero, mi è venuta voglia di andare a dare uno sguardo alla casa paterna, ormai disabitata da anni. L’ho trovata, come era facile attendersi, in evidente stato di incuria. Ho aperto con difficoltà e con qualche esitazione, poi ho fatto un giro. In una stanza, impolverato, ho ritrovato il vecchio tavolo su cui studiavo tanti anni fa. Su quel tavolo, da bambino, scrivevo le lettere di zia Mariuzza. Vedova e con tutti i figli emigrati per il mondo, dal Canada al Brasile, veniva da me a farsi scrivere le lettere di risposta ai figli, che periodicamente le mandavano qualche dollaro e qualche cruzeiro acclusi nelle buste, nella speranza che i soldi potessero sfuggire alle grinfie degli impiegati postali di due continenti, cosa che non sempre avveniva. La zia Mariuzza mi diceva quel che io dovevo scrivere, ma più spesso parlava direttamente con i figli, come se li avesse a qualche metro di distanza. Spesso si lasciava prendere dalla commozione, parlava singhiozzando ed io, che non sempre riuscivo a dare un senso alle sue lacrime, la guardavo incuriosito. Lei si accorgeva della mia sorpresa, si ricomponeva e mi sorrideva.
Dietro i vetri di quella finestra, spesso appariva zia Elena, vicina di casa. Anche lei vedova, veniva a riportare a casa l’una o l’altra delle numerose figlie, che amavano di tanto in tanto trascorrere un po’ di tempo a casa nostra, in compagnia dei cugini. Non stava bene allora questa promiscuità, anche tra parenti, perché così si viveva allora e così si pensava che bisognasse vivere, specie quando si avevano in casa ragazze da marito e la gente, fuori, era sempre pronta a tagliuzzare. La stessa cosa del resto succedeva a me, che amavo stare con le mie cuginette e spesso con una scusa mi recavo a casa loro. Zia Elena tollerava per qualche tempo, poi, inesorabilmente, mi rispediva a casa ed io, un po’ mogio e con la coda tra le gambe, mi ritiravo, con il dubbio e la sensazione di aver compiuto chissà quale misfatto.
Su quella sedia, in cucina, spesso si sedeva zio Amedeo. Tra i tanti fratelli di mio padre, era il solo ad avere studiato fino alla licenza media e faceva quindi un lavoro intellettuale per quei tempi: era l’unico dipendente della locale esattoria comunale. Di ritorno dalle sue solitarie passeggiate, durante le quali si spingeva fino alle ultime case del paese, amava fermarsi a casa nostra. Afflitto da leggera balbuzie, non era di certo un gran parlatore, ma immancabilmente trovava il modo di chiedermi qualcosa sui miei studi. Non appena io accennavo una risposta, egli trovava il pretesto per parlare dei suoi studi e di come la scuola fosse cambiata in peggio, con i professori che ormai non insegnavano più nulla.
Ad un angolo del focolare, su quella sedia che ora appare un po’ sbilenca, durante le lunghe e fredde sere d’inverno, si sedeva ogni tanto zia Silvia, unica non sposata della numerosa famiglia e che con il suo malinconico sorriso sembrava come rassegnata alla sua condizione di eterna zitella. È morta qualche anno fa zia Silvia, ultima dei tanti fratelli e sorelle, e negli ultimi tempi della sua vita, mentre era ricoverata in ospedale, sono andato spesso a trovarla, ad alleviare la sua solitudine. E lei mi accoglieva sempre con il suo eterno, malinconico sorriso, per dimostrarmi la sua gratitudine e talvolta mi faceva trovare pure dei pasticcini, che io fingevo di apprezzare e che conservavo, dicendole che li avrei mangiati a casa la sera.
Le stanze spoglie e mute sembrano ancora risuonare delle loro voci, ormai dissolte dal tempo. Mentre giro per la casa, mi ritrovo nella stanza dei miei genitori. C’è ancora un vecchio letto a baldacchino, solenne come un catafalco. Apro istintivamente un comodino, ne tiro fuori un vecchio pitale arrugginito, che resiste quasi come a volere sfidare il tempo, mentre tante altre cose sono sparite o comunque non ci sono più.
Ogni volta che ritorno in quella casa, trovo che mancano alcune cose, piccole e povere cose per lo più, come il resto dei mobili che sarebbe troppo costoso restaurare o trasportare altrove.
Era una vita semplice quella portata avanti dai miei vecchi. Mia madre, figlia di un farmacista di Casabona, si era trasferita nel nuovo paese dopo il matrimonio con mio padre, che era un piccolo possidente agricolo. Qui si era trovata bene ed era benvoluta, cosa non infrequente nel mio paese, dove tutti hanno una naturale propensione ed un istintivo rispetto per quelli che vengono da “fuori”, come ancora oggi si usa dire.
Ho ancora l’impressione di risentirli, di rivederli, come una volta, quando entrambi si facevano segno di parlare a bassa voce, per non disturbare me, che dovevo studiare e non dovevo perdere tempo. Mia madre, in particolare, nutriva grandi progetti su di me e nelle sue parole si avvertiva tutto l’orgoglio possibile, quando con amici e parenti parlava di me e dei miei successi scolastici.
Ora la rivedo quasi, mentre insieme con mio padre sembra incamminarsi su una strada che non conosco. Ogni tanto si volta verso di me e mi fa un cenno con la mano, invitandomi chiaramente a non seguirla. Poi riappaiono anche zia Mariuzza, zia Elena, zio Amedeo, zia Silvia. Tutti insieme continuano su quella strada, parlottano insieme a bassa voce, come un tempo, svoltano l’angolo e si dissolvono nel nulla.


Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale l’Espresso, 2012, pag. 186