giovedì 5 settembre 2013

Ezio Scaramuzzino - Le voci del silenzio


GIOVANNINA BELVEDERE


Ero “la maestra Belvedere”, per tutti. La vita era per me una missione ed io non mi sono sottratta a quanto il destino aveva stabilito. Per anni, ogni giorno sono uscita di casa per ritrovare i miei bambini, che erano anche i tanti miei figli. Si viveva di poco allora. Nelle aule fredde e nude, d’inverno appena riscaldate dalla carbonella accesa, su lavagne scrostate, su cattedre e banchi sconnessi, ho insegnato loro a leggere e a scrivere, a far di conto, ho insegnato come è fatto il mondo e quel che gli uomini hanno operato nel corso del tempo. Ma soprattutto ho insegnato loro l’amore per la vita. Ora che vivo lungo i pascoli del cielo, non ho più nulla da insegnare. Insieme ai tanti che mi hanno raggiunta, vivo nella luce e non avverto nemmeno il bisogno di apprendere. Ora so ed intuisco nel balenio della mente che cosa è l’Alfa e l’Omega, l’Essere, il Tutto, l’Infinito. Prego.


MARIA SCARAMUZZINO

Con le mie gambe malferme, lentamente, mi muovevo per arrivare a casa tua. Attraversavo quasi tutto il paese e ogni tanto mi soffermavo per cercare di riconoscere i pochi che mi sfioravano, squadrandoli o girandomi indietro per inseguirli con lo sguardo nel loro cammino. Ma in ogni tempo, col freddo dell’inverno o nella calura dell’estate, custodivo bene stretta una lettera che veniva da lontano. Se non c’eri,  ti aspettavo con trepidazione e, quando arrivavi, tu aprivi  subito la lettera che io riponevo nelle tue mani. Stavi attento a non lacerarla troppo, perché quella lettera probabilmente conteneva dei dollari, che avevano superato i mari e i monti, ma soprattutto avevano superato la bramosia e la mancanza di scrupoli degli impiegati di due continenti. Erano i miei figli a mandarmi quei soldi, quelli, tra i miei figli, che un giorno erano partiti per terre lontane. Io parlavo con loro attraverso di te e tu, giovane studente, mi seguivi con lo sguardo e badavi a non sciupare l’incanto di quel dialogo che superava le barriere dello spazio e del tempo. Ogni tanto mi commuovevo. Poi tua madre veniva immancabilmente a portare della frutta, magari un cesto di pere o un vassoio pieno di fichi d’india già sbucciati, ed io ero contenta di quel dono. Dimenticavo per un attimo le gioie e i dolori della vita.
Ho conosciuto giorni lieti e tristi, ma ho accettato la vita, godendo e assaporando la linfa del giorno. Non ho gioito oltre misura e non ho imprecato o gridato, perché sapevo che la vita è un dono e  che, in ogni caso, essa è degna di essere vissuta. Nella luce che mi circonda, ora la mia famiglia è diventata tanto più grande e nessuno abbandona più il luogo che gli è stato assegnato. Noi siamo qui per l’eternità.



VIOLETTA BERSI

Sin da bambina mi è piaciuto sognare e, per alimentare i miei sogni, ho letto Grand Hotel, Le grandi firme, Bolero. Su quelle pagine ho immaginato avventure meravigliose ed ho dato alimento alle mie fantasie. Poi quei sogni ho cercato di viverli nella realtà.
Io so bene quel che dicevano gli Scandalesi, quando mi vedevano passare con il mio Alfredo. Lo capivo da quello che farfugliavano sottovoce e che si scambiavano l’un l’altro. Dicevano che ero una poco di buono e talvolta anche di peggio: che non ci stavo con la testa e per questo bisognava essere indulgenti con me. Anche i bambini mi additavano ed io non potei sfuggire al mio destino: ero segnata ormai.
È vero: ho amato molto ed ho conosciuto degli uomini. Ma in realtà io ho amato l’amore e la vita e nell’ amore terreno ho solo cercato una scintilla di quello celeste. Ora che sono qui, posso anche dirlo. Qui nessuno mi accusa ed anzi ciò che mi è stato dato è la ricompensa per ciò che io ho dato.
Ditelo al mio Alfredo, che trascina stancamente gli ultimi anni della sua vita. Il mio amore coniugale non è venuto mai meno e, quando  Demetrio  mi ha  sottratta con la violenza alla luce effimera del giorno, il mio ultimo pensiero è stato per lui. Continuo a serbarlo nella memoria e, nella luce imperitura  che adesso mi avvolge, prego.