domenica 9 febbraio 2014

Ezio Scaramuzzino - Le voci del silenzio


DEMETRIO BARBUTO

Quando il giudice della corte d’assise di Crotone lesse la sentenza, mi cadde il mondo addosso. “Ergastolo”, per l’omicidio di Violetta Bersi. Certo, io, io, il carabiniere scelto Demetrio Barbuto, di San Mauro Marchesato, l’avevo uccisa, ma non perché fossi un assassino. Per troppo amore io l’avevo uccisa, per non vederla soffrire, perché Violetta era una creatura fragile, assetata d’amore anche lei, che viveva soffrendo e cercava di lenire la sua sofferenza amando gli uomini e a tanti concedendo una briciola, una scintilla del suo cuore infuocato. Io fui l’ultimo di questi uomini.

I giorni scorrevano lenti nel carcere di Catanzaro. Speravo di poter uscire un giorno,  di fare in tempo a rivedere i luoghi che avevano visto il nostro amore, di respirare l’aria che noi un giorno avevamo respirato. Ma fui colpito da un male che non perdona e mi rassegnai. Si nasce a fatica, si cresce a fatica, si vive a fatica e di solito si fa fatica anche a cedere. Però si cede lo stesso. Quando capii che era arrivato il mio ultimo giorno, chiesi soltanto di poter essere seppellito nel piccolo cimitero di Scandale, lo stesso dove era seppellita Violetta. Avevo scontato solo dieci anni di pena.

Ora sono qui, tra persone che non ho conosciuto o che ho conosciuto appena. La mia tomba è spoglia. Tanti, che sollevano lo sguardo ad osservare il mio ritratto in divisa, forse non sanno nemmeno chi io sia. Da qui vedo di scorcio, in lontananza, la tomba di Violetta. Anche la sua è spoglia. Sono passati tanti anni da allora e ad altri oggi è sortito l'assaporare l’aura del giorno e i raggi del sole. Mi piacerebbe poter godere soltanto di un po’ di luce, un po’ di luce…



Violetta Bersi
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ROSINA CONIGLIO

Spero che tu sappia ascoltare la voce delle mie mani. Fermati un attimo. Tutt’intorno sibilano i cipressi mossi dal vento ed i pettirossi infreddoliti si posano sui rami ad adocchiare gli ultimi bagliori del sole o a riconoscere qualche esca tra gli sparsi cespugli in fiore.
Fermati un attimo. Come quando eravamo fanciulli, quando tu passavi, e più spesso correvi, lungo la salita di Viale Puccini ed io ti osservavo da lontano. Spesso ti fermavi e mi osservavi anche tu, con i tuoi occhioni sgranati, mentre da dietro i vetri di una finestra ti inviavo un timido segnale. Parlavano per me i miei occhi e le mie mani e raccontavano i miei sogni di fanciulla, il mio cuore grande, i miei progetti, infiniti come l’aria che respiravamo o il cielo che guardavamo.
Ma la mia vita è stata breve ed i giorni sono passati senza che gli occhi riuscissero ad esprimere a pieno quel ch’io sentivo in cuore, i rimpianti, quello che poteva essere e che non era e non sarebbe più stato. Continuano a morire e a rinascere le stagioni, le messi, i fiori, ma tutto questo non avviene più per me. 
Nella luce, che adesso mi avvolge e nella quale vivo una vita che non avrà mai fine, non c’è più bisogno di parlare e di spiegarsi. Qui tutto è chiaro ed immediato. Parliamo con la mente e siamo pieni di gioia. Per l’eternità.