DEMETRIO BARBUTO
Quando il giudice della corte d’assise
di Crotone lesse la sentenza, mi cadde il mondo addosso. “Ergastolo”, per l’omicidio
di Violetta Bersi. Certo, io, io, il carabiniere scelto Demetrio Barbuto, di
San Mauro Marchesato, l’avevo uccisa, ma non perché fossi un assassino. Per
troppo amore io l’avevo uccisa, per non vederla soffrire, perché Violetta era
una creatura fragile, assetata d’amore anche lei, che viveva soffrendo e
cercava di lenire la sua sofferenza amando gli uomini e a tanti concedendo una
briciola, una scintilla del suo cuore infuocato. Io fui l’ultimo di questi
uomini.
I giorni scorrevano lenti nel carcere
di Catanzaro. Speravo di poter uscire un giorno, di fare in tempo a rivedere i luoghi che avevano
visto il nostro amore, di respirare l’aria che noi un giorno avevamo respirato.
Ma fui colpito da un male che non perdona e mi rassegnai. Si nasce a fatica, si
cresce a fatica, si vive a fatica e di solito si fa fatica anche a cedere. Però
si cede lo stesso. Quando capii che era arrivato il mio ultimo giorno, chiesi
soltanto di poter essere seppellito nel piccolo cimitero di Scandale, lo stesso
dove era seppellita Violetta. Avevo scontato solo dieci anni di pena.
Ora sono qui, tra persone che non ho
conosciuto o che ho conosciuto appena. La mia tomba è spoglia. Tanti, che
sollevano lo sguardo ad osservare il mio ritratto in divisa, forse non sanno
nemmeno chi io sia. Da qui vedo di scorcio, in lontananza, la tomba di
Violetta. Anche la sua è spoglia. Sono passati tanti anni da allora e ad altri
oggi è sortito l'assaporare l’aura del giorno e i raggi del sole. Mi piacerebbe
poter godere soltanto di un po’ di luce, un po’ di luce…
Violetta Bersi |
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ROSINA CONIGLIO
Spero che tu sappia ascoltare la voce
delle mie mani. Fermati un attimo. Tutt’intorno sibilano i cipressi mossi dal
vento ed i pettirossi infreddoliti si posano sui rami ad adocchiare gli ultimi
bagliori del sole o a riconoscere qualche esca tra gli sparsi cespugli in
fiore.
Fermati un attimo. Come quando eravamo
fanciulli, quando tu passavi, e più spesso correvi, lungo la salita di Viale
Puccini ed io ti osservavo da lontano. Spesso ti fermavi e mi osservavi anche
tu, con i tuoi occhioni sgranati, mentre da dietro i vetri di una finestra ti
inviavo un timido segnale. Parlavano per me i miei occhi e le mie mani e
raccontavano i miei sogni di fanciulla, il mio cuore grande, i miei progetti,
infiniti come l’aria che respiravamo o il cielo che guardavamo.
Ma la mia vita è stata breve ed i
giorni sono passati senza che gli occhi riuscissero ad esprimere a pieno quel
ch’io sentivo in cuore, i rimpianti, quello che poteva essere e che non era e
non sarebbe più stato. Continuano a morire e a rinascere le stagioni, le messi,
i fiori, ma tutto questo non avviene più per me.
Nella luce, che adesso mi avvolge e
nella quale vivo una vita che non avrà mai fine, non c’è più bisogno di parlare
e di spiegarsi. Qui tutto è chiaro ed immediato. Parliamo con la mente e siamo
pieni di gioia. Per l’eternità.