domenica 3 febbraio 2013

Ezio Scaramuzzino – Mamma Pina (Racconto)


Mamma Pina
I casini furono definitivamente chiusi in Italia alla mezzanotte del 20 settembre 1958. Non fosse altro che per motivi di età, non feci in tempo a frequentarli, ma essi fecero parte del mio immaginario e certamente alimentarono le fantasie sessuali, e non soltanto quelle, di tanti giovani della mia età. I casini  avevano fatto parte del costume quotidiano, come la parrocchia o la caserma dei carabinieri, e la loro chiusura non fu senza conseguenze nella mente e nel cuore di tante persone.
La mia prima conoscenza sull’argomento si formò grazie ai racconti degli studenti universitari del paese. Questi, quando  ritornavano a casa a Natale, a Pasqua e durante l’estate, si soffermavano con dovizia di particolari sulle arcane delizie di quegli ambienti. La mia presenza era appena tollerata, data la differenza di età, e tante volte venivo allontanato senza troppi riguardi, specie quando i racconti si apprestavano a diventare particolarmente scabrosi. Io facevo finta di andarmene, giravo un po’ al largo, ma poi approfittavo della distrazione di tutti e a poco a poco mi riavvicinavo. Finché qualcuno non se ne accorgeva e un’altra volta venivo allontanato.
In questo andirivieni e con l’ascolto smozzicato di tanti fatti, le mie idee risultarono abbastanza confuse. Soltanto una cosa mi sembrò sicura e inconfutabile: quelle case dovevano essere un luogo di piaceri proibiti, ai quali anche io, un giorno, forse, mi sarei avvicinato.
Caricatura del Prof. Ezio Scaramuzzino
Divenuto un po’ più grandicello, ma non abbastanza per avervi accesso, fui erudito in merito da Peppe Nuccà, proiezionista nell’unico cinema del paese. Egli era un mio grande amico, nonostante la differenza di età, e spesso mi consentiva di vedere i film a sbafo su uno scomodo sgabello posizionato nella cabina di  proiezione. Tra le tante cose che lo distinguevano, una, in particolare, mi colpiva e mi incuriosiva: egli era un grande frequentatore di casini, tanto che, diceva, non riusciva a starne lontano per più di due o tre giorni.
Mi teneva costantemente al corrente delle sue visite nell’unica casa chiusa della zona, che poi era situata a Crotone, in luogo discreto e appartato, ed era gestita da una tenutaria, Giuseppina Balestrieri o Mamma Pina, come egli preferiva chiamarla e come la chiamavano quasi tutti. I suoi racconti sembravano dei bollettini di guerra: aveva assaltato Ines che veniva da Torino, aveva annientato Tonina che veniva da Napoli, solo una volta aveva operato una ritirata strategica con Paola che era una profuga istriana. Io capivo poco di queste tattiche amatorie, ma prendevo per oro colato tutto quello che diceva e soprattutto sentivo un’ammirazione sconfinata per le sue gesta.
Mamma Pina era un’ex prostituta che aveva deciso di mettersi in proprio. Pesava non meno di un quintale e, da un angolo della sala d’ingresso, dove sotto un baldacchino era situato il suo posto di comando, sorvegliava e dirigeva con autorità e dolcezza quel mondo variegato che gravitava intorno alla sua “casa”. Accoglieva tutti i clienti con premura e si arrabbiava solo con i “cacaniente”, come lei li chiamava, cioè quelli che, dopo aver indugiato a lungo nella sala d’aspetto, se ne andavano senza aver “consumato”.
Mamma Pina in quell’ambiente era come una sepolta viva e usciva solo una volta ogni quindici giorni, quando, in una lunga carrozza trainata da due cavalli, esibiva nelle strade della città i nuovi arrivi, la cosiddetta quindicina. Girando su quella carrozza, sotto un ombrellino che proteggeva dai raggi del sole la sua carne abbondante e bianchissima, aveva lo sguardo perso nel vuoto e faceva finta di non conoscere nessuno, per evitare imbarazzi, esperta com’era di tanti segreti della città e di come girava il mondo. [...]

La seconda parte del racconto si trova a pagina 61 del libro del Prof. Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale l’Espresso, 2012.