domenica 8 luglio 2012

Il romanzo I Baroni in una recensione di Orsola De Cristofaro


Sopra, la copertina dell’edizione tedesca: Gian Paolo Callegari Die Barone, traduzione di Charlotte Birnbaum, Hamburg, 1953.

Gian Paolo Callegari, I Baroni, Milano, Garzanti, 1950.

Ecco un libro che viene a collocarsi nella nostra migliore letteratura meridionalistica, non soltanto, come è stato detto, accanto a Verga e Capuana, ma in certo qual modo anche a Dorso e a Levi. Il suo tema è appassionante, la presentazione dell’editore vuole avvertirci “che il problema del latifondo è trattato sulla base di episodi veri desunti da un carteggio borbonico inedito e dai racconti raccolti dalla viva parola di un centenario di Scandale nel crotonese”. Questo può non interessare, come può non interessare l’avvertimento che ai baroni rovinati succederanno i loro servi, “mentre la turba di contadini superstiziosi e primitivi abbandonerà la via del timor degli uomini e di Dio”. Quel “timor degli uomini” che ha ceduto all’attuale bisogno di liberazione delle masse meridionali, e quel “timor di Dio” che era concepito come “le preghiere che servono da orologio” (p. 119). La bellezza delle 318 avvincenti pagine del libro nell’intensa e vivacissima vita di cui vivono tutti, il barone, la baronessa, il baronetto scemo, la baronessina ninfomane, il servo fattore, e medici, avvocati, contadini, pecorari, arcipreti e vescovi; vivono i carbonari e gli intellettuali progressisti; gli strozzini e i gabellieri la corte del re di Napoli e gli aristocratici collegi della città regale. Qui è il vero valore artistico del libro: che non è a tesi e che proprio per questo riesce a porre in primo piano, al di là e al di sopra dei singoli personaggi, quello che si chiama il problema meridionale.
L’azione si svolge durante uno dei momenti più travagliati della storia del Mezzogiorno d’Italia: è l’epoca del tramonto dei Borboni e dell’avvento delle camicie rosse garibaldine. Ma i paesi di montagna sono troppo lontani dalle strade per le quali passa quella che poteva essere una rivoluzione, la cui eco giunge come un sogno e il cui effetto resterà limitato alla capitale e ai pochi altri centri maggiori; effetto d'altronde destinato a spegnersi rapidamente tra un Piemonte tradizionalista e un Meridione feudale. Il feudalesimo ivi risorge continuamente dalle sue ceneri: nessuna rivoluzione democratica riesce a spezzarlo: né quella del 1860, né quella del 1876, né quella socialista dei primi del secolo.
Questo tragico destino dei cafoni, di fronte ai “galantuomini” le cui stirpi si rinnovano continuamente, passandosi di generazione in generazione le terre incolte, è lo sfondo sul quale magistralmente si stagliano i protagonisti.

ORSOLA DE CRISTOFARO

Il PONTE, Rivista mensile di politica e letteratura, anno VI – n° 9-10, Settembre – Ottobre 1950.