Una riflessione lucida della poesia italiana si deve a Gian Vincenzo Gravina, nato a Roggiano nei pressi di Cosenza nel 1664. Dopo aver studiato lingue classiche, filosofia e giurisprudenza a Scalea e a Napoli, nel 1689 si trasferì a Roma dove ebbe la cattedra di leggi civili e poi quella di diritto canonico. Morì a Roma nel 1718.
Figura intellettuale che emerge dal “ceto civile” meridionale. Esperto giurista, imbevuto di cultura cartesiana e spinoziana, si impegnò in una dura battaglia contro i Gesuiti con il libello Hydra mystica seu de corrupta morali doctrina (1691). Occupa una posizione di rilievo nell’Accademia dell’Arcadia, che lui contribuì a fondare a Roma, il 5 ottobre 1690, assieme ad altri scrittori.
Nel trattato Della ragione poetica del 1708, già pubblicato nel 1696 col titolo Delle antiche favole, Gravina tiene presente le “antiche favole” e i poemi di Omero, individua nella “finzione” la caratteristica fondamentale della poesia che la riconduce alla facoltà della “fantasia”.
La poesia è quindi “una maga, ma salutare, ed un delirio che sgombra le pazzie” che attraverso le maschere delle favole manifesta nozioni costitutive della vita civile e offre al popolo un’immagine della sapienza razionale.
Dopo aver sottolineato la qualità fantastica dell'attività poetica, rivaluta la poesia di Alighieri. Scrisse saggi di argomento letterario: Opuscula, 1696; Della divisione dell'Arcadia, 1712; De disciplina poëtarum, 1712; Della tragedia, 1715, e nel 1712 le classicheggianti Cinque tragedie: Palamede, Andromeda, Servio Tullio, Appio Claudio, Papiniano. Dal rifiuto del barocchismo nasce un bisogno di “grande” poesia, basata su sentimenti profondi e sui grandi miti capaci di educare i popoli alla civiltà.