domenica 18 gennaio 2015

Dieci lire per Ciccillo - Racconto di Ezio Scaramuzzino


Dieci lire per Ciccillo

Mesoraca in una foto d'epoca 
Ciccillo partiva da Mesoraca verso l’alba, per poter arrivare di primo mattino in uno dei paesi del Marchesato. Ma la sua meta preferita era Scandale, che egli visitava almeno una volta al mese. Viaggiava a piedi Ciccillo, un po’ perché allora i mezzi di comunicazione erano scarsi, ma anche perché, se pure ci fossero stati, egli non aveva i soldi per pagarsi un biglietto e, se anche li avesse avuti, avrebbe certamente preferito risparmarseli, evitando un viaggio in autobus, che considerava decisamente un lusso riservato a ben altre persone. Nel viaggio egli percorreva scorciatoie e sentieri che conosceva bene e solo di tanto in tanto, nei brevi tratti in cui si trovava su una strada pubblica, si azzardava a chiedere un passaggio a qualche contadino alla guida di un carretto.
Quando il passaggio gli veniva accordato, montava in fretta e faceva la prima sosta al bivio Lenza, dove una sorta di osteria a buon mercato costituiva una prima tappa obbligata per tutti coloro che si trovassero ad attraversare quelle strade. Qui Ciccillo non perdeva tempo. Si dava un’occhiata intorno e, se erano presenti almeno due o tre persone, saliva subito su una sedia, richiamava l’attenzione dei presenti e incominciava a recitare filastrocche e scioglilingua che solo lui conosceva.
Alla fine della recita scendeva dal suo piedistallo e chiedeva dieci lire. “M’e ‘ddu’ dece lire?”, diceva, non con l’aria di chi chiede l’elemosina, ma con l’atteggiamento di chi chiede il giusto compenso per un’esibizione artistica.
Poi, se gli era possibile, proseguiva il viaggio sul carretto e verso le otto era in paese. Si fermava anche qui in un’osteria, si faceva offrire un bicchiere di vino, quasi a voler ritemprare le forze, e poi andava incontro al suo pubblico. La notizia del suo arrivo si diffondeva in un attimo. “E’ arrivato Ciccilluzzo”, si dicevano tutti. C’erano centinaia di Ciccilli nella zona, ma Ciccilluzzo era solo lui, unico ed inconfondibile.

Ciccillo avanzava, nella strada principale del paese, alla testa di un corteo formato per lo più da monelli, che durante tutto il tragitto lo spernacchiavano e lo tormentavano crudelmente, tirandogli dietro ciottoli, tirandolo per la giacca o facendogli lo sgambetto per cercare di farlo cadere. Tra quei monelli allora c’ero anche io. Ma Ciccillo era impavido: resisteva ad ogni offensiva e, un po’ barcollando, un po’ zigzagando per evitare le trappole, riusciva a raggiungere la sua meta, che poi era la piazza principale del paese. Qui qualcuno andava a prendere una sedia, alla quale Ciccillo si avvicinava facendosi largo tra la folla sghignazzante. Una volta salito, egli dava fondo alle sue qualità di attore, recitando il meglio del suo repertorio. La gente non lesinava gli applausi e si infervorava sempre di più. L’attore, da quella sedia che costituiva il suo palcoscenico, assecondava gli umori del pubblico e non si faceva pregare nel soddisfare le richieste. Ciccillo si accalorava, gesticolava, sudava, parlava, straparlava, ma immancabilmente, prima o poi, in un modo o nell’altro, arrivava a quello che era unanimemente considerato il suo pezzo forte, il suo cavallo di battaglia, il suo capolavoro.
Quando lui stesso preannunziava che stava per eseguire ‘A fimmina culinuda, la gente improvvisamente rimaneva zitta, perché non una parola doveva essere persa. In questo silenzio Ciccillo prima si rischiarava la voce, poi si dava una manata sulla coscia, come per darsi il tempo, ed infine attaccava, su un ritmo di tarantella, una specie di strambotto.

E quant’ è bella ‘a fimmina culinuda,
parà ‘na casa senza ceramidi,
ammenz’’i gambi cià ‘na grutta scura,
ci guardi cu ricriu e nu ci vidi.

E quant’ è bellu l’ominu culinudu,
parà ra casa di nu cavaleru,
ammenz’’i gambii tena ‘n’armatura,
fa strazi di li fimmini chi vida.

Alla fine della recita la folla andava immancabilmente in delirio. Ciccillo dal suo palcoscenico ringraziava con un inchino, stando ben attento a non ruzzolare, e poi chiedeva dieci lire ad ogni persona di buon cuore del gentile pubblico. Qualche carogna gli rispondeva con il lancio di ortaggi, ma non mancavano quelli che le dieci lire gliele davano davvero, anche se si divertivano a lanciargliele sulla testa. Ciccillo non si perdeva d’animo: si piegava per terra e si intrufolava tra le gambe della gente per raccogliere quelle sudatissime offerte.
Durante la mia infanzia, non c’era ancora la televisione, del cinema si sentiva solo parlare e gli unici divertimenti possibili erano quelli procurati da qualche scassatissimo circo equestre di passaggio e da qualche compagnia di attori girovaghi napoletani, oppure quelli offerti da Ciccillo. Ma il circo e gli attori girovaghi capitavano una volta ogni tanto, mentre Ciccillo era quasi un ospite fisso nella vita lenta e sonnacchiosa del paese.
Passarono gli anni, tanti anni. In una calda Domenica di Giugno, mi ritrovai con alcuni amici a San Mauro Marchesato, in occasione della festa della Madonna del Soccorso, una delle più importanti e famose tra le tante feste religiose del circondario. Da Scandale eravamo andati a piedi, tanto era breve la distanza, e ci eravamo ritrovati davanti al santuario nel momento culminante delle celebrazioni. Il grande quadro con l’effigie della Madonna aveva appena iniziato il suo giro attraverso le strade del paese e, quando la folla cessò di sfilare, notai che ai due lati del portone d’ingresso del santuario due ciechi erano fermi a chiedere l’elemosina.
Uno dei due era di corporatura robusta, aveva occhiali neri, un cartello appeso al petto con la scritta Cieco di guerra, un bastone nella mano destra, un cappello nella mano sinistra e chiedeva la carità con voce lamentosa e strascicata. L’altro, più gracile ed apparentemente più vecchio del primo, si limitava a protendere silenziosamente un piattino, sperando nella generosità dei passanti. Non aveva occhiali ed era possibile vedere che dalle sue orbite fuoriusciva un liquido giallastro, rappreso all’altezza degli zigomi.
La mia attenzione fu richiamata in particolare dal fatto che il primo cieco mal sopportava la presenza del secondo e lo invitava continuamente ad andarsene o almeno a spostarsi un po’ più lontano. Il secondo però oltre che cieco doveva essere anche sordo, perché proprio non ci sentiva da quell’orecchio e continuava imperterrito, senza profferire parola, a tenere il braccio teso con il piattino.

Ma fu un attimo: il primo cieco, che poi tanto cieco non doveva essere, prese una breve rincorsa, roteò il suo bastone e assestò con precisione una legnata sulla testa del rivale. Il quale barcollò un attimo e poi cadde per terra, mentre l’aggressore se la svignava, approfittando della ressa e della confusione.
Fui il primo ad accorrere ed a prestare soccorso al malcapitato. Riuscii anche a superare la mia istintiva repulsione per quel liquido giallastro che gli colava sul volto e lo sorressi, riuscendo a risollevarlo e a rimetterlo in piedi, mentre altre persone assistevano o collaboravano in qualche modo all’opera caritatevole. Egli si lamentava flebilmente per il colpo ricevuto e cercava di toccarsi con la mano una ficozza bluastra che già incominciava ad infiorare la sua testa calva. Mentre lo sorreggevo, vidi che anche sul didietro, lungo la gamba destra, gli colava quella secrezione giallastra che già aveva impiastricciato il suo volto. Notai che da una tasca posteriore penzolava un piccolo contenitore di plastica, che nella caduta si era spezzato in due e lasciava fuoriuscire qualcosa che con tutta evidenza si presentava come un miscuglio liquido di uova strapazzate. Poi mi soffermai a guardare bene il volto di quel “cieco” ed ebbi la netta impressione di averlo già visto da qualche parte, forse anche di conoscerlo.

Cercavo di far luce nella mia memoria, di ricordare dove e come l’avessi conosciuto, quando egli incominciò ad articolare le sue prime parole dopo la caduta e disse con chiarezza:“M’e ‘ddu’ dece lire?”. Era lui, era Ciccillo, invecchiato, malconcio, ancora più a mal partito rispetto a tanti anni prima, ma era lui, decisamente.
Erano passati tanti anni da allora, forse trenta. C’era stato il miracolo economico degli anni ’60 e poi c’era stata la crisi degli anni ‘70, che aveva impoverito tanta gente. In seguito c’era stata la ripresa degli anni ’80, la ripresa del periodo di Reagan, tanto per intenderci, ma Ciccillo tutte queste cose non le aveva mai sapute e certamente non le sapeva ancora. Egli continuava imperterrito a chiedere dieci lire, quelle dieci lire con le due spighe da una parte e l’aratro dall’altra, che ormai non venivano nemmeno più coniate ed erano sparite dalla circolazione.

Mi frugai nelle tasche e trovai una moneta di cinquecento lire. Gliela regalai con piacere, un po’ per ringraziarlo, seppur tardivamente, degli spassi che mi aveva procurato quando ero bambino, un po’ anche per chiedergli scusa delle tante afflizioni che gli avevo procurate allora, con gli altri monelli della mia età.
Ciccillo afferrò la moneta con un brusco movimento e si mise ad osservarla con gli occhi sgranati, con quegli stessi occhi che fino a qualche minuto prima egli aveva tenuti ostinatamente chiusi. Poi si allontanò, senza voltarsi, zoppicando leggermente e di tanto in tanto mettendosi una mano sulla ficozza, mentre con l’altra mano teneva stretto il suo piccolo tesoro.
Qualche anno fa, nel suo paese di origine, Ciccillo è morto durante una freddissima notte di Dicembre all’età di circa novanta anni. E’ morto in perfetta solitudine, come in perfetta solitudine era sempre vissuto. I vicini di casa, che vedevano da un paio di giorni l’uscio sempre chiuso, si erano insospettiti ed avevano dato l’allarme. I volontari della Misericordia, che sono andati a prelevarlo per provvedere alle esequie, lo hanno trovato completamente vestito ed infilato nel suo letto sotto una montagna di coperte. I suoi scarponi erano allineati davanti al letto e sul tavolo c’erano ancora gli avanzi della sua ultima cena di un paio di giorni prima: un pezzetto di pane, qualche oliva, una buccia di formaggio, una mezza cipolla, un bicchiere con residui di vino. Gli stessi volontari, mentre cercavano di raddrizzarlo per sistemarlo nella bara, hanno trovato in una tasca interna della sua giacca, strettamente legato con uno spago, un libretto di risparmio postale al portatore. Su di esso risultavano depositati 112.342,26 Euro a nome e per conto di Ierardi Francesco, nato a Mesoraca il 15 Gennaio 1911.

Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale l’Espresso, 2012, pag. 16