Dieci lire per Ciccillo
Mesoraca in una foto d'epoca |
Ciccillo partiva da Mesoraca verso
l’alba, per poter arrivare di primo mattino in uno dei paesi del Marchesato. Ma
la sua meta preferita era Scandale, che egli visitava almeno una volta al mese.
Viaggiava a piedi Ciccillo, un po’ perché allora i mezzi di comunicazione erano
scarsi, ma anche perché, se pure ci fossero stati, egli non aveva i soldi per
pagarsi un biglietto e, se anche li avesse avuti, avrebbe certamente preferito
risparmarseli, evitando un viaggio in autobus, che considerava decisamente un
lusso riservato a ben altre persone. Nel viaggio egli percorreva scorciatoie e
sentieri che conosceva bene e solo di tanto in tanto, nei brevi tratti in cui
si trovava su una strada pubblica, si azzardava a chiedere un passaggio a
qualche contadino alla guida di un carretto.
Quando il passaggio gli veniva
accordato, montava in fretta e faceva la prima sosta al bivio Lenza, dove una
sorta di osteria a buon mercato costituiva una prima tappa obbligata per tutti
coloro che si trovassero ad attraversare quelle strade. Qui Ciccillo non
perdeva tempo. Si dava un’occhiata intorno e, se erano presenti almeno due o
tre persone, saliva subito su una sedia, richiamava l’attenzione dei presenti e
incominciava a recitare filastrocche e scioglilingua che solo lui conosceva.
Alla fine della recita scendeva dal suo
piedistallo e chiedeva dieci lire. “M’e ‘ddu’ dece lire?”, diceva, non con
l’aria di chi chiede l’elemosina, ma con l’atteggiamento di chi chiede il
giusto compenso per un’esibizione artistica.
Poi, se gli era possibile, proseguiva
il viaggio sul carretto e verso le otto era in paese. Si fermava anche qui in
un’osteria, si faceva offrire un bicchiere di vino, quasi a voler ritemprare le
forze, e poi andava incontro al suo pubblico. La notizia del suo arrivo si
diffondeva in un attimo. “E’ arrivato Ciccilluzzo”, si dicevano tutti. C’erano
centinaia di Ciccilli nella zona, ma Ciccilluzzo era solo lui, unico ed
inconfondibile.
Ciccillo avanzava, nella strada
principale del paese, alla testa di un corteo formato per lo più da monelli,
che durante tutto il tragitto lo spernacchiavano e lo tormentavano crudelmente,
tirandogli dietro ciottoli, tirandolo per la giacca o facendogli lo sgambetto
per cercare di farlo cadere. Tra quei monelli allora c’ero anche io. Ma
Ciccillo era impavido: resisteva ad ogni offensiva e, un po’ barcollando, un
po’ zigzagando per evitare le trappole, riusciva a raggiungere la sua meta, che
poi era la piazza principale del paese. Qui qualcuno andava a prendere una
sedia, alla quale Ciccillo si avvicinava facendosi largo tra la folla
sghignazzante. Una volta salito, egli dava fondo alle sue qualità di attore,
recitando il meglio del suo repertorio. La gente non lesinava gli applausi e si
infervorava sempre di più. L’attore, da quella sedia che costituiva il suo
palcoscenico, assecondava gli umori del pubblico e non si faceva pregare nel
soddisfare le richieste. Ciccillo si accalorava, gesticolava, sudava, parlava,
straparlava, ma immancabilmente, prima o poi, in un modo o nell’altro, arrivava
a quello che era unanimemente considerato il suo pezzo forte, il suo cavallo di
battaglia, il suo capolavoro.
Quando lui stesso preannunziava che
stava per eseguire ‘A fimmina culinuda, la gente improvvisamente rimaneva
zitta, perché non una parola doveva essere persa. In questo silenzio Ciccillo
prima si rischiarava la voce, poi si dava una manata sulla coscia, come per
darsi il tempo, ed infine attaccava, su un ritmo di tarantella, una specie di
strambotto.
E quant’ è bella ‘a fimmina culinuda,
parà ‘na casa senza ceramidi,
ammenz’’i gambi cià ‘na grutta scura,
ci guardi cu ricriu e nu ci vidi.
E quant’ è bellu l’ominu culinudu,
parà ra casa di nu cavaleru,
ammenz’’i gambii tena ‘n’armatura,
fa strazi di li fimmini chi vida.
Alla fine della recita la folla andava
immancabilmente in delirio. Ciccillo dal suo palcoscenico ringraziava con un
inchino, stando ben attento a non ruzzolare, e poi chiedeva dieci lire ad ogni
persona di buon cuore del gentile pubblico. Qualche carogna gli rispondeva con
il lancio di ortaggi, ma non mancavano quelli che le dieci lire gliele davano
davvero, anche se si divertivano a lanciargliele sulla testa. Ciccillo non si
perdeva d’animo: si piegava per terra e si intrufolava tra le gambe della gente
per raccogliere quelle sudatissime offerte.
Durante la mia infanzia, non c’era
ancora la televisione, del cinema si sentiva solo parlare e gli unici
divertimenti possibili erano quelli procurati da qualche scassatissimo circo
equestre di passaggio e da qualche compagnia di attori girovaghi napoletani,
oppure quelli offerti da Ciccillo. Ma il circo e gli attori girovaghi
capitavano una volta ogni tanto, mentre Ciccillo era quasi un ospite fisso
nella vita lenta e sonnacchiosa del paese.
Passarono gli anni, tanti anni. In una
calda Domenica di Giugno, mi ritrovai con alcuni amici a San Mauro Marchesato,
in occasione della festa della Madonna del Soccorso, una delle più importanti e
famose tra le tante feste religiose del circondario. Da Scandale eravamo andati
a piedi, tanto era breve la distanza, e ci eravamo ritrovati davanti al
santuario nel momento culminante delle celebrazioni. Il grande quadro con
l’effigie della Madonna aveva appena iniziato il suo giro attraverso le strade
del paese e, quando la folla cessò di sfilare, notai che ai due lati del
portone d’ingresso del santuario due ciechi erano fermi a chiedere l’elemosina.
Uno dei due era di corporatura robusta,
aveva occhiali neri, un cartello appeso al petto con la scritta Cieco di
guerra, un bastone nella mano destra, un cappello nella mano sinistra e
chiedeva la carità con voce lamentosa e strascicata. L’altro, più gracile ed
apparentemente più vecchio del primo, si limitava a protendere silenziosamente
un piattino, sperando nella generosità dei passanti. Non aveva occhiali ed era
possibile vedere che dalle sue orbite fuoriusciva un liquido giallastro,
rappreso all’altezza degli zigomi.
La mia attenzione fu richiamata in
particolare dal fatto che il primo cieco mal sopportava la presenza del secondo
e lo invitava continuamente ad andarsene o almeno a spostarsi un po’ più
lontano. Il secondo però oltre che cieco doveva essere anche sordo, perché
proprio non ci sentiva da quell’orecchio e continuava imperterrito, senza
profferire parola, a tenere il braccio teso con il piattino.
Ma fu un attimo: il primo cieco, che
poi tanto cieco non doveva essere, prese una breve rincorsa, roteò il suo
bastone e assestò con precisione una legnata sulla testa del rivale. Il quale
barcollò un attimo e poi cadde per terra, mentre l’aggressore se la svignava,
approfittando della ressa e della confusione.
Fui il primo ad accorrere ed a prestare
soccorso al malcapitato. Riuscii anche a superare la mia istintiva repulsione
per quel liquido giallastro che gli colava sul volto e lo sorressi, riuscendo a
risollevarlo e a rimetterlo in piedi, mentre altre persone assistevano o
collaboravano in qualche modo all’opera caritatevole. Egli si lamentava
flebilmente per il colpo ricevuto e cercava di toccarsi con la mano una ficozza
bluastra che già incominciava ad infiorare la sua testa calva. Mentre lo
sorreggevo, vidi che anche sul didietro, lungo la gamba destra, gli colava
quella secrezione giallastra che già aveva impiastricciato il suo volto. Notai
che da una tasca posteriore penzolava un piccolo contenitore di plastica, che
nella caduta si era spezzato in due e lasciava fuoriuscire qualcosa che con
tutta evidenza si presentava come un miscuglio liquido di uova strapazzate. Poi
mi soffermai a guardare bene il volto di quel “cieco” ed ebbi la netta
impressione di averlo già visto da qualche parte, forse anche di conoscerlo.
Cercavo di far luce nella mia memoria,
di ricordare dove e come l’avessi conosciuto, quando egli incominciò ad
articolare le sue prime parole dopo la caduta e disse con chiarezza:“M’e ‘ddu’
dece lire?”. Era lui, era Ciccillo, invecchiato, malconcio, ancora più a mal
partito rispetto a tanti anni prima, ma era lui, decisamente.
Erano passati tanti anni da allora,
forse trenta. C’era stato il miracolo economico degli anni ’60 e poi c’era
stata la crisi degli anni ‘70, che aveva impoverito tanta gente. In seguito
c’era stata la ripresa degli anni ’80, la ripresa del periodo di Reagan, tanto
per intenderci, ma Ciccillo tutte queste cose non le aveva mai sapute e
certamente non le sapeva ancora. Egli continuava imperterrito a chiedere dieci
lire, quelle dieci lire con le due spighe da una parte e l’aratro dall’altra,
che ormai non venivano nemmeno più coniate ed erano sparite dalla circolazione.
Mi frugai nelle tasche e trovai una
moneta di cinquecento lire. Gliela regalai con piacere, un po’ per
ringraziarlo, seppur tardivamente, degli spassi che mi aveva procurato quando
ero bambino, un po’ anche per chiedergli scusa delle tante afflizioni che gli
avevo procurate allora, con gli altri monelli della mia età.
Ciccillo afferrò la moneta con un
brusco movimento e si mise ad osservarla con gli occhi sgranati, con quegli
stessi occhi che fino a qualche minuto prima egli aveva tenuti ostinatamente
chiusi. Poi si allontanò, senza voltarsi, zoppicando leggermente e di tanto in
tanto mettendosi una mano sulla ficozza, mentre con l’altra mano teneva stretto
il suo piccolo tesoro.
Qualche anno fa, nel suo paese di
origine, Ciccillo è morto durante una freddissima notte di Dicembre all’età di
circa novanta anni. E’ morto in perfetta solitudine, come in perfetta
solitudine era sempre vissuto. I vicini di casa, che vedevano da un paio di
giorni l’uscio sempre chiuso, si erano insospettiti ed avevano dato l’allarme.
I volontari della Misericordia, che sono andati a prelevarlo per provvedere
alle esequie, lo hanno trovato completamente vestito ed infilato nel suo letto
sotto una montagna di coperte. I suoi scarponi erano allineati davanti al letto
e sul tavolo c’erano ancora gli avanzi della sua ultima cena di un paio di
giorni prima: un pezzetto di pane, qualche oliva, una buccia di formaggio, una
mezza cipolla, un bicchiere con residui di vino. Gli stessi volontari, mentre
cercavano di raddrizzarlo per sistemarlo nella bara, hanno trovato in una tasca
interna della sua giacca, strettamente legato con uno spago, un libretto di
risparmio postale al portatore. Su di esso risultavano depositati 112.342,26
Euro a nome e per conto di Ierardi Francesco, nato a Mesoraca il 15 Gennaio 19 11.
Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale
l’Espresso, 2012, pag. 16