venerdì 1 novembre 2013

Ezio Scaramuzzino – Le voci del silenzio


AMEDEO GRISI

Nel mio salone in piazza Oberdan ho rasato a zero generazioni di bambini, perché c’erano dei rischi a portare i capelli lunghi e poi la testa a meloncino consentiva di diluire nel tempo la  successiva rasatura. Ho anche sbarbato generazioni di contadini, che mi pagavano “a raccolta”, come si diceva: mi pagavano cioè con i prodotti dei loro campi e talvolta non mi pagavano per niente, perché i campi non producevano niente. Si viveva di poco e io vivevo di poco allora. Ma non ero contento: la vita che fluiva monotona, stagione dopo stagione, non era per me. Ho sognato, ho suonato la chitarra ed ho giocato a carte, a bocce, al totocalcio: ho scommesso, cercando di riannodare in tal modo l’anello che non tiene e che talvolta rende amara l’esistenza.
Una volta, ricordo, giocai a bocce anche con te, giovane studente pretensioso. Vinsi facilmente ed evitai di infierire, di spillarti altri soldi, perché tu eri destinato a perdere, perché tu ti limitavi a conoscere la vita attraverso i libri, mentre io leggevo direttamente nel libro della vita. Ho giocato ed ho scommesso, certo, talvolta vincendo e talvolta perdendo, come sempre avviene. Non sapevo allora che la mia scommessa più grande io l’avrei vinta dopo la vita.




 VINCENZO MARINO

Ero per tutti “il cavaliere” e non c’era bisogno di aggiungere nome e cognome: tutti sapevano che “il cavaliere” ero io. Per tanti anni sono stato il messo comunale di quel piccolo paese che allora era Scandale, tutti mi conoscevano e tutti io conoscevo, perché almeno una volta nella vita in ogni famiglia ho portato qualche documento da firmare. Era semplice la vita allora ed anche i rapporti tra la gente e chi rappresentava lo stato erano semplici. Attraversavo a piedi le vie del paese e non c’era bisogno di bussare: gli usci erano sempre aperti. Ogni tanto accettavo di sedermi e di bere un bicchiere di vino, nell’attesa che i vecchi rimasti a casa si decidessero a firmare con una croce sulla ricevuta. Alleviavo un po’ la fatica del vivere quotidiano e poi riprendevo il cammino, mentre tutt’intorno si ascoltava d’estate il canto delle cicale.
Una volta ho notificato qualcosa anche a te. Ricordo che interruppi una tua partita a terziglio nel bar Centrale e ti consegnai la comunicazione che eri stato eletto consigliere comunale. Lo sapevi già, certo, ma quel documento ufficiale ti riempì d’orgoglio. Eri giovane allora, ancora studente, e forse pensavi che quella carica era soltanto un inizio. Ti devi considerare fortunato, non già perché eri stato eletto, ma perché  in seguito l’ambizione non ha deformato il tuo animo.
Io sono vissuto abbastanza, sorridendo alla vita e sorridendo alla gente. Nell’attraversare gli ultimi lembi del mio viaggio terreno, ho ripercorso i momenti tristi e lieti della mia esistenza e nulla ho rimpianto, nulla ho rinnegato, perché tutto appartiene alla vita. Qui, dove ora vivo, non ci sono nomine o carriere, non ci sono ambizioni da soddisfare. Non c’è un passato, non c’è un futuro: tutto è presente.



EMILIO MONTEFORTE - ANGELA SCALISE

In quel 29 febbraio di un anno bisestile particolarmente funesto, la morte ci ha colti insieme, all’uscita da un bivio, così come insieme ci aveva accompagnati la vita. Quando la nostra piccola auto è stata travolta, insieme abbiamo avvertito l’impossibilità della lotta e solo abbiamo sussurrato con flebile voce:”Signore, perdonaci tutto”. Così abbiamo abbandonato la fuggente luce del giorno, a poche ore di distanza l’uno dall’altra, con lo sguardo perso nel vuoto, ad inseguire gli ultimi bagliori di una fredda domenica invernale. Abbiamo reclinato insieme lo stelo che ci sorreggeva, quasi in un ultimo abbraccio. La morte ci ha colti increduli, come increduli ci avevano colti il primo gesto d’amore, il primo bacio, il primo mattino della primavera. Nella luce che ora ci avvolge, sappiamo che continueremo a vivere anche sulla terra. Rivivremo nel ricordo di chi ci ha amati, delle persone che noi abbiamo amato. Saremo l’oro delle api, il primo sbocciare dei fiori, la gemma sul ramo secco. Saremo anche noi la primavera.



GIOVANNI VALENTE

Ti rivedo dopo tanti anni. Eri un bambino allora e ricordo quel giorno, c’eri anche tu, quando nel frantoio di tuo padre, Flavio, che era tuo cugino, cadde nell’olio. Dalle presse uscivano insieme acqua e olio e alla separazione provvedeva lui che di tale arte era considerato un maestro. Anche quel giorno  Flavio prese il suo inseparabile piattino separatore, che egli manovrava con l’abilità di un equilibrista, e scese  verso il pozzetto.
Fu un attimo: perse l’equilibrio, scivolò sui gradini unti di olio ed emise  solo un grido: “Zio Ciiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii”. Accorremmo tutti. Si intravedeva solo la testa di Flavio, che fuorusciva appena dal pozzetto pieno d’olio. Qualcuno gridava, qualcuno si metteva le mani nei capelli, qualcuno si diede da fare per salvare “il naufrago”. Che alla fine fu tirato fuori: sembrava un salsicciotto unto d’olio e pronto per essere arrostito sulla graticola. Ma aveva gli occhi sbilenchi e sembrava incapace di parlare.
Tuo padre mi disse di togliergli i vestiti, del tutto inzuppati  e dai quali si potevano recuperare almeno cinque litri di olio. Alla fine “il naufrago” fu disteso per terra, completamente nudo, e posto vicino ad un grande braciere. Il calore sembrò farlo rinvenire, perché lentamente egli sollevò la testa, si guardò attorno, emise un rutto lungo e fragoroso ed espulse dalla bocca uno spruzzo d’olio che mi colpì in pieno.
Quel giorno si rise molto e tutto si risolse bene, a parte una potente diarrea, che costrinse il malcapitato a restare a casa per qualche giorno.
Allora anche io lavoravo nel frantoio:  guadagnavo poco, ma spendevo anche poco e mi consideravo fortunato, perché d’inverno avevo il lavoro garantito e non ero costretto ad emigrare come tanti. Adesso siamo tutti qui: io, tuo padre, Flavio. Quei giorni sono ancora vivi nella nostra memoria. Ogni tanto ne parliamo. E sorridiamo.