AMEDEO GRISI
Nel mio salone in piazza Oberdan ho
rasato a zero generazioni di bambini, perché c’erano dei rischi a portare i
capelli lunghi e poi la testa a meloncino consentiva di diluire nel tempo
la successiva rasatura. Ho anche sbarbato
generazioni di contadini, che mi pagavano “a raccolta”, come si diceva: mi
pagavano cioè con i prodotti dei loro campi e talvolta non mi pagavano per
niente, perché i campi non producevano niente. Si viveva di poco e io vivevo di
poco allora. Ma non ero contento: la vita che fluiva monotona, stagione dopo
stagione, non era per me. Ho sognato, ho suonato la chitarra ed ho giocato a
carte, a bocce, al totocalcio: ho scommesso, cercando di riannodare in tal modo
l’anello che non tiene e che talvolta rende amara l’esistenza.
Una volta, ricordo, giocai a bocce
anche con te, giovane studente pretensioso. Vinsi facilmente ed evitai di
infierire, di spillarti altri soldi, perché tu eri destinato a perdere, perché
tu ti limitavi a conoscere la vita attraverso i libri, mentre io leggevo
direttamente nel libro della vita. Ho giocato ed ho scommesso, certo, talvolta
vincendo e talvolta perdendo, come sempre avviene. Non sapevo allora che la mia
scommessa più grande io l’avrei vinta dopo la vita.
VINCENZO MARINO
Ero per tutti “il cavaliere” e non
c’era bisogno di aggiungere nome e cognome: tutti sapevano che “il cavaliere”
ero io. Per tanti anni sono stato il messo comunale di quel piccolo paese che
allora era Scandale, tutti mi conoscevano e tutti io conoscevo, perché almeno
una volta nella vita in ogni famiglia ho portato qualche documento da firmare.
Era semplice la vita allora ed anche i rapporti tra la gente e chi
rappresentava lo stato erano semplici. Attraversavo a piedi le vie del paese e
non c’era bisogno di bussare: gli usci erano sempre aperti. Ogni tanto
accettavo di sedermi e di bere un bicchiere di vino, nell’attesa che i vecchi
rimasti a casa si decidessero a firmare con una croce sulla ricevuta. Alleviavo
un po’ la fatica del vivere quotidiano e poi riprendevo il cammino, mentre
tutt’intorno si ascoltava d’estate il canto delle cicale.
Una volta ho notificato qualcosa anche
a te. Ricordo che interruppi una tua partita a terziglio nel bar Centrale e ti
consegnai la comunicazione che eri stato eletto consigliere comunale. Lo sapevi
già, certo, ma quel documento ufficiale ti riempì d’orgoglio. Eri giovane
allora, ancora studente, e forse pensavi che quella carica era soltanto un
inizio. Ti devi considerare fortunato, non già perché eri stato eletto, ma
perché in seguito l’ambizione non ha
deformato il tuo animo.
Io sono vissuto abbastanza, sorridendo
alla vita e sorridendo alla gente. Nell’attraversare gli ultimi lembi del mio
viaggio terreno, ho ripercorso i momenti tristi e lieti della mia esistenza e
nulla ho rimpianto, nulla ho rinnegato, perché tutto appartiene alla vita. Qui,
dove ora vivo, non ci sono nomine o carriere, non ci sono ambizioni da soddisfare.
Non c’è un passato, non c’è un futuro: tutto è presente.
EMILIO MONTEFORTE - ANGELA SCALISE
In quel 29 febbraio di un anno
bisestile particolarmente funesto, la morte ci ha colti insieme, all’uscita da
un bivio, così come insieme ci aveva accompagnati la vita. Quando la nostra
piccola auto è stata travolta, insieme abbiamo avvertito l’impossibilità della
lotta e solo abbiamo sussurrato con flebile voce:”Signore, perdonaci tutto”.
Così abbiamo abbandonato la fuggente luce del giorno, a poche ore di distanza
l’uno dall’altra, con lo sguardo perso nel vuoto, ad inseguire gli ultimi
bagliori di una fredda domenica invernale. Abbiamo reclinato insieme lo stelo
che ci sorreggeva, quasi in un ultimo abbraccio. La morte ci ha colti
increduli, come increduli ci avevano colti il primo gesto d’amore, il primo
bacio, il primo mattino della primavera. Nella luce che ora ci avvolge,
sappiamo che continueremo a vivere anche sulla terra. Rivivremo nel ricordo di chi
ci ha amati, delle persone che noi abbiamo amato. Saremo l’oro delle api, il
primo sbocciare dei fiori, la gemma sul ramo secco. Saremo anche noi la
primavera.
GIOVANNI VALENTE
Ti rivedo dopo tanti anni. Eri un
bambino allora e ricordo quel giorno, c’eri anche tu, quando nel frantoio di
tuo padre, Flavio, che era tuo cugino, cadde nell’olio. Dalle presse uscivano
insieme acqua e olio e alla separazione provvedeva lui che di tale arte era
considerato un maestro. Anche quel giorno
Flavio prese il suo inseparabile piattino separatore, che egli manovrava
con l’abilità di un equilibrista, e scese
verso il pozzetto.
Fu un attimo: perse l’equilibrio,
scivolò sui gradini unti di olio ed emise
solo un grido: “Zio Ciiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii”. Accorremmo tutti. Si
intravedeva solo la testa di Flavio, che fuorusciva appena dal pozzetto pieno
d’olio. Qualcuno gridava, qualcuno si metteva le mani nei capelli, qualcuno si
diede da fare per salvare “il naufrago”. Che alla fine fu tirato fuori:
sembrava un salsicciotto unto d’olio e pronto per essere arrostito sulla
graticola. Ma aveva gli occhi sbilenchi e sembrava incapace di parlare.
Tuo padre mi disse di togliergli i
vestiti, del tutto inzuppati e dai quali
si potevano recuperare almeno cinque litri di olio. Alla fine “il naufrago” fu
disteso per terra, completamente nudo, e posto vicino ad un grande braciere. Il
calore sembrò farlo rinvenire, perché lentamente egli sollevò la testa, si
guardò attorno, emise un rutto lungo e fragoroso ed espulse dalla bocca uno
spruzzo d’olio che mi colpì in pieno.
Quel giorno si rise molto e tutto si
risolse bene, a parte una potente diarrea, che costrinse il malcapitato a
restare a casa per qualche giorno.
Allora anche io lavoravo nel
frantoio: guadagnavo poco, ma spendevo
anche poco e mi consideravo fortunato, perché d’inverno avevo il lavoro
garantito e non ero costretto ad emigrare come tanti. Adesso siamo tutti qui:
io, tuo padre, Flavio. Quei giorni sono ancora vivi nella nostra memoria. Ogni
tanto ne parliamo. E sorridiamo.