venerdì 5 aprile 2013

Il massacro dei Lumi

La Ghigliottina in un dipinto d'epoca.

La Vandea è nomen omen del massacro di innocenti, al pari della notte di San Bartolomeo, di Guernica, di Srebrenica. Eppure in Francia, a distanza di oltre due secoli, la Vandea resta uno scandalo difficile da maneggiare. La parola «Vandea» fino a pochi anni fa era sinonimo di cattolico reazionario. Sono i «chouans», gufi maledetti. Baciapile, nemici della Rivolu­zione, servi dei nobili, sanguinari.
Di Vandea si è tornati a parlare in Francia, in Parlamento, sui giornali e sugli schermi televisivi. L’Ump, il partito di opposizione, ha presentato in Assemblea nazionale un disegno di legge che ha lo scopo di ri­conoscere il «genocidio vandeano», che ebbe luogo, a più riprese, tra il 1793 e il 1796 per opera delle truppe rivoluziona­rie di Robespierre nei confronti degli abitanti della regione contadina della Vandea. I sostenitori della tesi del genocidio parlano di una «congiura del silenzio», in cui la politica e la storiografia avrebbero cospirato perché cadesse nell’oblio il grande sacrificio dei vandeani, colpevoli di aver difeso le loro convinzioni religio­se contro il nuovo potere ateo e giacobino. Le «colonne infami» repubblicane compirono spietati massacri contro i vandeani, lasciando sul terreno dai duecentocinquanta ai trecentomila morti.

«Se approvasse la proposta sul genocidio, la Repubblica accetterebbe per la prima volta di guardarsi allo specchio», ha scritto sulla rivista Causeur lo storico Frédéric Rouvillois. «Per la prima volta riconoscerebbe il terribile delitto che ha segnato l’inizio della propria storia». Di parere opposto lo storico della Rivoluzio­ne francese, Jean-Clément Martin: «I crimini sono crimini, ma manca la logica». Significa che i vandeani non furono sterminati in quanto tali, ma sono stati vitti­me di una guerra civile. Lo spiega così Alain Gerard: «La Rivoluzione non poteva ammettere che il popolo si ribellasse contro di lei. Per questo la Vandea doveva scomparire».

La tesi del genocidio è stata portata avanti da Reynald Secher, uno dei maggiori storici delle guerre vandeane, secondo il quale «quelle rappresaglie non corrispondono agli atti orribili, ma inevitabili, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga e atroce guerra, ma proprio a massacri premeditati, organizzati, pianificati, commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la volontà cosciente e proclamata di distruggere una regione ben definita e di sterminare tutto un popolo, di preferenza donne e bambini» («Il genocidio vandeano», EFFEDIEFFE Edizioni, 1989).

La Vandea oggi è mito e tabù, tanto che il massacro alla chiesa di Petit Luc a Roche sur Yon viene accostato a quello nazista di Oradour nel 1944. Il leader della gauche militante Jean-Luc Mélenchon ha protestato vivacemente per un programma televisivo andato in onda su France 3, dove Robespierre viene chiamato «il boia della Vandea» (le bourreau de la Vendée). Anche il settimanale Nouvel Obs attacca il documentario di Frank Ferrand, in cui le armate giacobine vengono accostate alle Einsatzgruppen naziste. I preti che insorgono in Vandea erano chiamati «corvi neri». Scortate da gendarmi mal vestiti, con la coccarda tricolore sui cappellacci, le carrette della Rivoluzione erano cariche di questi preti refrattari detti «insermentés», quelli che non hanno giurato, che hanno mantenuto fedeltà all’autorità del Pontefice, cancellata per decreto. Georges Jacques Danton avrebbe voluto fare un mazzetto di tutti i preti refrattari su cui si riusciva a mettere le mani, imbarcarli a Marsiglia e scaricarli da qualche parte sulle coste dello stato della chiesa, come una trentina di anni prima Sebastiào José de Carvalho y Melo, marchese di Pombal, illuminato primo ministro dell’illuminato re Giuseppe I, aveva tentato di fare con i gesuiti espulsi dal Portogallo.

Tutti i libri in latino, fossero pure i «Colloqui» di Erasmo da Rotterdam, finirono nel fuoco. I preti nella trappola di Rochefort furono più di quattrocento. Nelle loro ciotole di legno la Rivoluzione versò solo carne putrida, merluzzo andato a male, malsane fave di palude. L’acqua era infetta. A chi ne chiedeva di più, i fidati seguaci della Dea Ragione risponde­vano di servirsi pure, mostrando a dito l’oceano. Vi furono presto casi di delirium tremens, di follia. In poche settimane fu un’ecatombe di sacerdoti. I guardiani abbandonarono la nave. I morti venivano scaraventati in mare o seppelliti nella palude. Per non sbagliare qualcuno venne sepolto mentre ancora respirava.
In Vandea la guerra non ebbe un centro, ma era dappertutto, perché ovunque vi fosse un vandeano, fanciullo o adulto, uomo o donna che fosse, là per la Repubblica si trovava un «soldato nemico». Nessuna delle regole dell’antica arte militare fu rispettata in quella guerra, perché fu la «prima guerra moderna», in cui dei civili si fece carne da macello. In Vandea le armi principali furono le preghiere nelle chiese solitarie, le corone di rosario agli occhielli, i «sacri cuori» cuciti agli abiti, le processioni e le riunioni nei boschi, i giuramenti di rifiutarsi al reclutamento, i racconti dei miracoli, fu la rivolta di tutto un popolo, in cui le congiure erano na­scoste dietro l’altare di ogni borgo contadino. I sacerdoti officiarono nelle brughiere e nelle paludi. Per primi s’armano i contadini. Mentre altrove in Francia so­no state le classi superiori ad avere spinto il popolo, nella Vandea cristianissima è il popolo a incitare le classi superiori.

A dispetto di certa storiografia, i contadini della Vandea non erano monarchici più di altri, non furono supini sostenitori dell’Ancien Régime. Erano profondamente cattolici. L’origine di questa fedeltà vandeana alla chiesa ebbe radici antiche, affonda in un passato di simpatie calviniste e nell’opera di catechizzazione dei missionari della Compagnia di Maria e delle Figlie della Saggezza.
Il generale vandeano era un venditore ambulante. Si chiamava Jean Cathelineu, per tutti «il santo d’Anjou». È intento a impastare il pane, quando sente la voce che gli comanda di alzarsi e mettersi a capo di questa guerra santa. Guida una folla armata di falci, bastoni e pochi fucili, in cui le donne, nei campi e nei boschi, pregano in ginocchio per la vittoria dei loro mariti e figli. Da ogni angolo della regione si leva un augurio che è un grido di odio verso i giacobini e il loro ateismo. I vandeani conquistano le città e poi le abbandonano. La facoltà di dissolversi e ricomporsi è la loro forza e la loro debolezza. Guidati dal santo di Anjou attraversa­no a decine di migliaia la Loira per liberare Nantes, per coinvolgere nella loro guerra i fieri «chouans» realisti della Bre­tagna.

Papa Karol Wojtyla ha beatificato, durante il suo pontificato, 164 di questi «martiri» della Rivoluzione francese. Nel corso di una controversa visita in Vandea, pronunciò un discorso ben lontano dal revanchismo. Nel rendere onore ai vandeani caduti nell’impari lotta contro le armate illuministe, Giovanni Paolo II sottoli­neò la loro testimonianza di fede, ma tra­scurò, se non addirittura condannò, il senso politico della controrivoluzione. Forzando un po’ la storia, il Papa affermò che anche i vandeani «desideravano sincera­mente il necessario rinnovamento della società», circoscrisse alla difesa della libertà religiosa la loro ribellione, non tacque i «peccati» di cui anch’essi si erano macchiati nell’asprezza della lotta (sanguinose furono le rappresaglie vandeane contro i rivoluzionari).

Anche nella chiesa cattolica ci sono opinioni differenti sulla Vandea. Padre Giuseppe De Rosa sulla Civiltà Cattolica ad esempio ha scritto che la guerra di Vandea di due secoli fa andrebbe guardata con maggiore «spirito critico», senza farne una «bandiera» e, tanto meno, il «simbolo dell’autentico cristianesimo». Di diverso avviso l’arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, secondo il quale «in quanto è avvenuto in Vandea trovano le loro premesse le stragi che hanno insanguinato l’intero XX secolo in nome o di un assurdo ideale di giustizia, di un’aberrante esaltazione di una nazione o di una razza, o di un egoismo mascherato da civile comprensione».
La Vandea come preludio di Auschwitz, del Ruanda, del Gulag. Lo storico della Rivoluzione francese Jules Michelet par­la così dei vandeani: «Ci imbattiamo in un popolo sì stranamente cieco e sì bizzarramente sviato che si arma contro la Rivoluzione, sua madre. Scoppia nell’ovest la guerra empia dei preti». Anche un figlio dei Lumi come Andrè Glucksmann ha de­finito la Vandea «la prima Glasnost dopo giorni del Terrore».
È la rivelazione del male compiuto da Robespierre. E anche Jean Tulard, docente all’Università Paris IV ed esperto di Vandea, paragona le azioni dei giacobini agli eccidi ordinati da Stalin. Gli storici non amano i parago­ni con l’Olocausto. Ma della Vandea parlano come di un «popolicidio», mentre a lungo storici marxisti hanno letto la guerra di Vandea come una guerra della borghesia centralizzatrice delle città contro il popolo contadino.

Varrà la pena di ricordare che i vandeani sono stati sterminati con metodi non dissimili da quelli nazisti. Così si leg­ge sul Bollettino ufficiale della nazione: «Bisogna che i briganti di Vandea siano sterminati prima della fine di ottobre. La salvezza della patria lo richiede». I vandeani sono considerati degli «ominidi», delle sottospecie di uomini, e in quanto tali non aventi diritto a un territorio.
Il nome stesso Vandea viene eliminato, deve scomparire. Si assegna un nuovo nome alla Vandea chiamandola «diparti­mento Vendicato», per esprimere appunto questa volontà di ripopolare quella parte di Francia un tempo abitata da «cat­tivi francesi».

Quello della Vandea è il primo genoci­dio della storia ideologica del mondo contemporaneo. Le Colonne infernali, tagliagole al comando del generale Louis Marie Turreau, devastarono la regione con feroce acribia cartesiana. Fucilazioni, annegamenti, falò di parrocchie zeppe di civili, camere a gas. C’era l’onta di un pezzo di Francia che aveva osato levarsi contro la volonté générale, ma anche il diffondersi d’idee malthusiane in una Francia attanagliata dalla fame per colpa della stessa rivoluzione. Così i giacobini concepirono, votarono all’unanimità e realizzarono l’annientamento di un gruppo umano religiosamente identificabile. Con ben due leggi, scritte e conservate negli archivi militari: il 1° agosto si decise la distruzione del territorio, degli abitati, delle foreste e dell’economia locale; il 1° ottobre si ordinò lo sterminio degli abitanti, prima le donne («solchi riproduttori») poi i bambini. Leggi in vigore fino alla caduta di Robespierre, nel luglio 1794. Tutto come Hitler prima di Hitler.

Si usò in Vandea il termine «race»: un vocabolo che, di conio illuminista (Voltaire, Buffon, l’Encyclopédie), produsse lì subito l’idea di una «race maudite» da estirpare. Bertrand Barè- re, membro del «Comité de salut public», gridava dalla tribuna: «Quelle campagne ribelli sono il cancro che divora il cuore della Repubblica francese».
Quanti furono i morti? Un vandeano su tre? Centoventimila o seicentomila, come sostiene lo storico Pierre Chaunu? «Qual­siasi rivoluzione scatena negli uomini gli istinti della più elementare barbarie, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio», disse il grande scrittore russo Aleksandr Solzenicyn quando inaugurò a Lucs-sur-Boulogne un memoriale dedicato ai martiri del massacro perpetrato in questa piccola località dalle truppe re­pubblicane del generale Cordelier. In poche ore, fra il 28 febbraio e il primo marzo del 1794, furono uccise 564 persone, fra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni.
«Il XX secolo ha notevolmente ottenebrato l’aureola romantica della rivoluzione del XVIII secolo», disse ancora l’autore di «Arcipelago Gulag».

Nonostante le esecuzioni sommarie di Angers, nonostante le «noyades», gli annegamenti notturni a Nantes, in cui senza processo in due mesi vennero gettati nell’estuario della Loira da due a tremila tra preti «refrattari», la resistenza della Vandea non venne domata. Per vincere i vandeani, caduto il Comitato di salute pubblica, la Rivoluzione pensò di ricorrere a «la douceur», alla dolcezza. Si consigliò ai soldati dalla casacca azzurra di partecipare alle funzioni nei villaggi, di rispettare i preti e la fede della povera gente. Alla fine era la Vandea che aveva vinto, seppure da un immenso cimitero.
Al termine della guerra, il generale francese Joseph Westermann spedì una breve lettera al Comitato di salute pubblica: «Non c’è più nessuna Vandea. Secon­do gli ordini che mi avete dato, ho massacrato i bambini sotto i cavalli e le donne non daranno più alla luce briganti. Non ho prigionieri. Li ho sterminati tutti». Sembra un inveramento delle parole pronunciate negli anni del Terrore dal celebre moralista Chamfort: «La Rivoluzione è un cane randagio che nessuno osa fermare».

Articolo del giornalista Giulio Meotti su Il Foglio del 18 Marzo 2013