Nella foto a destra, conservata da Luigi
Aprigliano, si vede il figlio di Pietro Cipriotti, Michele, insieme a Maria e
Mico Aprigliano.
CIPRIOTTI PIETRO fu Michele
Via Garibaldi, 22
IIª Zona – Famiglia matura. N° 131
Storia
di lui
“Pietro è
nato a Cariati, in provincia di Cosenza, sul mare. Suo padre, Michele lavorava
in una fornace di mattoni. Pietro da ragazzo, oltre a far mattoni, apprese
l’arte del vasaio, che esercitò a Cariati per qualche anno. La terra, fino a
vent’anni, non era per lui superficie da coltivare, ma argilla da impastare.
A ventitre
anni nel 1936, morto il padre, separatisi i fratelli, in piena crisi
d’occupazione (non si vendevano più vasi a Cariati), Pietro partì alla ricerca
di lavoro e si fermò a Scandale dal Barone Zurlo, a Faraone e fece la mietitura
di quell’anno.
Salito in
paese, vide che dietro l’abitato l’argilla era buona: si accordò con un
contadino che coltivava la terra del Barone Camicia e aveva una casupola,
costruì una fornacella e tornò all’arte ma, fabbricando e vendendo terraglie e
mattoni. Il guadagno era discreto. Si sposò nel 1937 con Antonietta Drammis,
che aveva allora 17 anni, era figlia di contadini di discreta posizione (5 – 6
tomoli a Bosco Ferrato, terre in terrageria ecc.). Ebbe il primo figlio nel
1939.
Nel 1939 fu
chiamato soldato, andò in Libia, stette pochi mesi, ritornò, ma, da poco
ritornato, fu nuovamente richiamato, rispedito in Africa e nel gennaio 1941,
alla prima caduta di Tobruq, preso
prigioniero.
Cominciò
così la seconda parte della sua storia, durata fino all’aprile 1946, quando
finalmente ritornò a casa. La moglie e l’unico figlio vissero del sussidio
militare nella casa in affitto dove tuttora vivono. Pietro cominciò, dopo la
cattura, la sua peregrinazione di campo in campo: durissima la prigionia in
Egitto; più tenne quella in Sud Africa, nel Transvaal , ai confini con l’Angola
portoghese, sebbene poco piacesse a Pietro e agli altri la polenta di granturco
e le frittelle di polenta fritte nell’olio di cotone, con le quali soltanto
potevano integrare il magro rancio.
Nel campo del
Transvaal ognuno ritornò, tuttavia, al suo lavoro e Pietro all’argilla e
all’arte del vasaio con una rudimentale ruota costruita alla meglio. Il
successo della “Sezione Artistica” fu notevole e coi guadagni, un terzo del
quale andava a ogni singolo artigiano e due terzi al fondo comune del campo,
tutti i prigionieri ebbero due volte alla settimana la pasta asciutta,
comprandola da una ditta italiana da molti anni insediata nel Transvaal.
Nel 1943,
non ho ben compreso, ai prigionieri fu posto l’obbligo di lavorare fuori dei
campi e Pietro, la cui arte era piaciuta, ebbe in sorte d’insediarsi in un
sobborgo di Città del Capo e di lavorare in una fabrichetta di terraglie che
due inglesi avevano messo sotto la sua guida e con il lavoro suo e di alcuni
operai alle sue dipendenze. La guerra finì ma in Sud Africa il lavoro dei
prigionieri era così apprezzato che il tentativo fu fatto di trattenerli il più
a lungo possibile. Solo nel 1946 questo tentativo fu spezzato e Pietro tornò
tra i primi. La sua nave, tuttavia, era
troppo grossa, tanto da non passare per il Canale di Suez. Pietro coi compagni
scaricato a Suez, internato per tre mesi in un campo in Egitto, mentre i
paesani, partiti dopo di lui, arrivando a casa si meravigliarono di non
trovarlo e i suoi cominciarono a piangerlo morto.
Come Dio
volle, il 13 aprile
19 46 Pietro sbarcò con altri a Napoli, attese 5 – 6 giorni in una
campo di Afragola, liberò anche il bagaglio che aveva portato (i “gioielli”,
gli furono sequestrati, ma roba ne aveva, tra l’altro 7 paia di scarpe) e tornò
al paese quasi senza soldi perché per tutta indennità lo chiamarono a Catanzaro
a riscuotere un residuo di 15 lire e per sei mesi continuarono a
corrispondergli il soldo militare di 5 lire al giorno (dice lui) “quando ormai
non ci si chinava più a raccogliere in terra cento lire”.
A questo
punto per la prima volta fu posto di fronte alla necessità di trovarne uno, in
campagna, diverso dal suo. Denari e opportunità di tornare all’arte sua non ne
aveva; la vecchia casupola e la piccola fornace erano distrutte. Comincia così
contro voglia a lavorare da bracciante agricolo e a coltivare qualche briciolo
di terra. Intanto anno per anno il numero dei figli aumentava, al momento della
riforma ne aveva già quattro ed ora ne ha sette.
Se non fosse
per Michele, il ragazzo solo, che già era grandicello quando cominciarono a
nascere gli altri, tutto il peso di una così numerosa famiglia sarebbe sulle
sue spalle e su quella della sua precaria impresa”. [...]
Piccola parte del fascicolo dedicato a Cipriotti
Pietro fu Michele - Roma, Biblioteca “Giustino Fortunato”, Archivio
Rossi-Doria, Scandale, vol. III, fasc. 14. L’originale è di 11 pagine
dattiloscritte.