domenica 21 agosto 2011

Giovannino Drammis




Sopra, Giovannino in una foto By Ros. Sotto, foto originale di scena (che ho comprato a Roma da un collezionista), scattata in una sala del palazzo Drammis durante le riprese del film “Il Brigante”.



Apprendo dai blog di Scandale la scomparsa di Giovannino: una persona per bene e molto educata. Qualche anno fa, l’ultima volta che sono venuto a Scandale, sono andato a trovarlo. Come al solito, approfittavo per fare qualche domanda sulla famiglia, e lui mi rispondeva con passione. Mi raccontava come i documenti e i libri dei suoi avi erano stati distrutti durante la lavorazione del film “Il Brigante”. Erano rimaste soltanto, in un vecchio album, una ventina di vecchie fotografie di amici dei baroni Drammis risalenti, molte alla seconda metà dell’Ottocento e alcune all’inizio del Novecento. Me l’ha regalate dicendomi: “Prendile, a te possono servire”.



Riporto di seguito, un articolo che avevo già pubblicato su questo blog nei primi mesi del 2010. Sono ricordi del film “Il Brigante” raccolti dal giornalista Giovanni Scarfò in un’intervista a Giovannino Drammis, fatta nel 1989.



“C’erano una volta le troupe cinematografiche (ci sono anche adesso beninteso, almeno fino a quando le sue emittenze planetarie lo consentiranno), ma non quelle che si vedono ad ogni angolo della strada, bensì quelle di una volta, quelle arcaiche, la cui presenza era motivo di grande festa, di curiosità, di meraviglia o di scocciatura per la gente del paese scelto come luogo di ambientazione del film. Ma la cosa più importante era che alla fine si faceva cinema, e tanto bastava per fare felici grandi e piccini: insomma il cinema non minava la possibilità di essere se stessi, anche dopo essere stati impressionati (al contrario, oggi, la possibilità di essere sembra subordinata al fatto di apparire in televisione: mi video, ergo sum).



Ciò nonostante è anche vero che molte troupe cinematografiche si comportano come Attila. Immaginiamocele un po’: un regista quasi sempre autoritario (si dice che chi fa il regista nasconda la sua pazzia, perché in realtà egli si crede Napoleone), attori inavvicinabili (anche le mezze calzette, anche quelle!), i tecnici quasi tutti Romani e come tali preoccupati, principalmente, di trovare un posto dove se magna bene (anche adesso, anche adesso!), e quando davano confidenza alla gente del posto lo facevano secondo la famosa scala dei valori italiani in base alla quale Roma è La Capitale, Milano Il Capitale, e il resto mancia. E, in effetti, per cercare di parlare normalmente con i suddetti bisognava essere don Chisciotte, anche perché qualche volta i fatti superavano le parole e superavano anche i limiti imposti dalla buona educazione.



Vicino al balcone che dà sulla piazza principale e sulle porte del salone vi sono ancora i forellini causati dalle piccole cariche che fingevano le scariche di fucile. Li abbiamo voluti conservare (continua Giovannino) per ricordare quella esperienza che è stata indimenticabile. Quasi tutta la gente del paese ha lavorato nel film come comparsa, ed è stata pagata mille lire al giorno. Anche io ho fatto la comparsa nella scena della rivoluzione (racconta la mamma di Giovannino), ma Castellani mi sembrava un tipo strano, non parlava quasi mai, e poi, io avevo l’impressione che non gli piacevano le donne. Castellani era davvero curioso (continua Giovannino) quando c’è stata la scena della rivoluzione, ha fatto distruggere la nostra biblioteca e tanti altri oggetti. Fortunatamente abbiamo salvato il pianoforte. Che brigante quel Castellani”.



Cfr. Settenote, anno 1, n°1, Associazione Culturale Jonica Editore, agosto 1989. Giovanni Scarfò, La Calabria nel cinema, Cosenza, Edizioni Periferia, 1990, p. 157.