Corteo nuziale di Maria e Mico Aprigliano a Largo Genuzzo in una foto dell’Archivio Aprigliano. Questo largo ha preso il nome dal sig. Giovinazzi, titolare dell’osteria che lì sorgeva, e padre del dottor Giuseppe Giovinazzi.
“Il corso Umberto sembra il letto di un fiume che scorre veloce a valle. Lo strozzano due case appollaiate sui fianchi all’altezza del vecchio municipio. Si forma qui una gola, larga il giusto necessario per consentire il passaggio di un asino carico con due sarcine di legna. Era questo, una volta, il metro di misura per stabilire la larghezza minima di una via del paese. Subito dopo la strettoia, si snodano quattro viuzze: via Municipio, vico Isonzo, via Campanella e via Principe Umberto. Un crocevia non segnalato dalla toponomastica comunale. Il popolo da oltre mezzo secolo lo chiama “u largu i Genuzzo”.
Centro nevralgico di Scandale, questo angolo di paese non ha poi nulla di particolare. Fino a qualche anno fa c’era un’osteria. Un ritrovo sempre affollato, dove accanto a un bicchiere di vino, si discuteva, spesso animatamente, e si affogavano i piccoli e grandi problemi della vita quotidiana della povera gente.
Si parlava di lavoro, di terra, di politica. Un parlare disperato anche quando da sottomessi braccianti sfruttati dai baroni del latifondo, si era diventati piccoli proprietari di piccoli fazzoletti di terra. Solo Totonno di Ciomba, un giovane ortolano speranzoso, riusciva a portare una nota di allegria improvvisando poesie satiriche e cantando parodie.
L’oste era Genuzzo. Persona amabile e dal carattere forte. Con lui si confidavano i braccianti e i contadini afflitti da mille bisogni. I problemi della povertà. Genuzzo sembrava un rude. Si commuoveva invece facilmente. Sapeva consigliare, ma soprattutto sapeva aiutare. [...]
“U largu i Genuzzo” era particolarmente animato durante le campagne elettorali. Qui si tenevano i comizi. Dal pianerottolo della casa costruita da Bruno i curvu, capofila dell’emigrazione scandalese a Milano, appassionati discorsi infuocavano gli animi dei contadini, i quali dell’oratore apprezzavano non tanto le argomentazioni bensì la foga con la quale attaccava il “Governo ladro”, e l’ardore convincente con il quale si faceva carico dei problemi del proletariato.
Il comizio puntualmente veniva aperto da Giovanni i Gori, un proletario che “aveva fatto la guerra”, che con la riforma agraria era diventato assegnatario di un podere in località Cipodero, ed era “rosso” si soleva dire “come il sangue delle sue vene”. Giovanni i Gori saliva sul pianerottolo con un fazzoletto rosso intorno al collo, grande da coprire le spalle, annodato sul petto. Lui era uno del popolo e non poteva mentire. Lui rappresentava il bisogno e le vittime della borghesia, della polizia, della classe governante. Era, insomma, il simbolo del proletariato scandalese che sperava nella propria liberazione sognando “bandiera rossa che trionferà”.
Passo del libro di Iginio Carvelli, Rughe di pietra. Piccole storie di un paese calabrese (Scandale), Rubbettino, Catanzaro 1995, p. 53.