domenica 4 settembre 2022

Il Brigante

 

Scandale 1961 - Foto del film "Il Brigante"

IL BRIGANTE (1960)

di Renato Castellani

 

Sul muro della piazza del paese campeggia, a caratteri cubitali, un “Noi tireremo diritto” che non pare ammettere repliche. Sono gli ultimi anni del fascismo, in una Calabria apparentemente graziata dal conflitto. Accostati al muro, i braccianti agricoli attendono pazienti un ingaggio a giornata. Nessuno di loro possiede campi, sono quasi tutti in mano al latifondista Aprici, protetto dal podestà Ricadi e dalla legione dei Carabinieri. Solo la famiglia di Nino, epico Antoin Doinel del sud Italia, ha un piccolo appezzamento, ma nessuno vuole lavorare per loro: l’ordine dei potenti è ben chiaro, quelle terre fanno gola, è necessario provocare un fallimento per poterle espropriare. Il padre costretto ad arruolarsi coi tedeschi per 5000 lire, a metà tra il sacrificio per la famiglia e la fuga da una situazione insostenibile, cade in Germania. Entra nelle vite della famiglia Michele Rende, amico di Nino e amore della sorella Miliella, carismatico e impavido ribelle alle ingiustizie sociali, costretto progressivamente dalla sordità e dalla malafede delle istituzioni al brigantaggio e alla fuga. Michele viene condannato, con indagini e processo fascistissimamente sommari, persino per un omicidio mai commesso, ma durante la guerra riesce a fuggire per combattere al fianco degli Alleati. Arrivano in paese i bombardamenti, poi gli americani, finisce il fascismo e gli uomini di potere vengono sostituiti, ma non cambia nulla, e i padroni continuano a schiacciare il popolo contadino mentre Michele continua a lottare, fino alla fine.

Renato Castellani, nel 1960, scrive con Suso Cecchi D’amico e dirige una vera e propria epopea sull’innocenza, sulle ingiustizie sociali, sulla paura, lucida ed appassionata metafora della Resistenza presentata al Cinema Ritrovato di Bologna nel (purtroppo non bellissimo) restauro digitale della versione integrale originale. Sorta di “C’era una volta in Calabria”, Il Brigante, se non è un capolavoro, ben poco gli manca: un colosso di 172′, proiettato per la prima volta alla Mostra di Venezia nel ’61 e poi tagliato di oltre mezz’ora prima della distribuzione, un film-fiume che parla di vita, di morte, di lavoro, di affetti, delle angherie subite prima, durante e dopo la guerra, con una profondità che supera di molto il neorealismo rosa del quale Castellani fu fra gli apici. Gli attori, come da tradizione neorealista in buona parte non professionisti presi dalla strada, interpretano personaggi sì di fantasia, ma inseriti in una realtà sociale talmente bene delineata da permettere a Castellani di raggiungere una verità storica quasi documentaristica. I loro volti, i loro costumi e le loro mentalità sono proprio quelle dei contadini-eroi-sconfitti protagonisti, sinceri, legati alle tradizioni, maledettamente ‘veri’. A metà strada fra il cuore di De Seta, la precisione antropologica di Rosi e la magniloquenza di Sergio Leone, Il Brigante è una tragedia proletaria, affresco di realtà contadina, vista attraverso gli occhi puri di un bambino costretto a crescere troppo in fretta.

Grazie alla copia presente negli archivi della Biennale, è stato possibile questo restauro, già presentato alla Mostra nel 2011, che se da un lato pecca di eccessiva pulizia (sembra per lunghi tratti un film digitale del 2010, con evidente violenza antifilologica nei confronti del medium) e di una luce decisamente troppo fioca nelle scene notturne che risultano difficili da intuire, vanta sull’altro piatto della bilancia il recupero di 34 minuti altrimenti perduti.

“L’uomo deva farsi giustizia da solo, sennò tanto valeva nascere donna”, dice Nino alla madre e alla sorella Miliella. “Sono nato in questa terra violenta, siamo nati per soffrire come un mulo bastonato” gli fa eco Michele Rende, disilluso e stanco, subito prima del tragico epilogo. Castellani si conferma uno dei più grandi sceneggiatori della storia del Cinema italiano, abile ad inserire nell’intreccio lunghi istanti di una poetica straziante e sognante. Dall’ancestrale umanità del personaggio dell’appuntato Fimiani, poca gloria e troppi figli, unico amico nell’Arma di Nino e Michele, fino alla schiettezza del bigamo Pataro, primo a occupare terre “per un seme di libertà” e al quale i padroni distruggeranno il raccolto. I padroni, quei dei ex machina che intelligentemente non si vedono mai, ma sono costantemente rappresentati dall’alternanza di altre vittime, burattini pronti ad essere usati e scaricati.

La sublime potenza visiva e narrativa della sequenza dei bombardamenti, come pure quella dell’occupazione delle terre, con una massa che sembra infinita di contadini in marcia, ha pochi eguali nella storia del Cinema, ma sono molte le sequenze pronte a entrare prepotentemente nei cuori degli spettatori. Dal giovane Nino che, appoggiato al muro della piazza in attesa di un lavoro, guarda malinconico i giochi degli altri bambini, alla straziante disperazione della madre di fronte alla scelta di Miliella, pronta ad una vita di fuga e sacrifici pur di stare vicino all’amore Michele. È però la canzone sull’uccisione di Pataro, cantata a bassa voce in carcere da Nino con gli altri ‘rivoltosi’ il punto più alto del film. Castellani, in una pagina di sceneggiatura che dovrebbe essere studiata come manuale di scrittura, la paragona allo stormire delle foglie, concerto di rumori singolarmente impercettibili, che si alza inarrestabile dal fitto della boscaglia.

 Il finale, potente e angosciante, prevede che sia proprio l’appuntato Fimiani a sparare il colpo che metterà fine alla fuga e alla vita di Michele Rende, con il suo sguardo devastato dal dolore nel giubilo di chi si congratula con il suo spirito di iniziativa. I potenti hanno vinto, hanno stroncato la rivolta, continueranno indisturbati con le proprie angherie. È finito il tempo dei sabotaggi, delle masserie incendiate, delle terre occupate: il leader è caduto, e con lui la lotta. Ma qualcun altro, ne siamo convinti, saprà ben presto riprenderne le redini e combattere per la giustizia. Guidato dallo stesso ardore, perché l’epica, si sa, va oltre gli eroi.

 

Articolo di Marco Romagna su cinelapsus.com del 3 Luglio 2015