Scandale 1961 - Foto del film "Il Brigante" |
IL BRIGANTE (1960)
di Renato Castellani
Sul
muro della piazza del paese campeggia, a caratteri cubitali, un “Noi tireremo
diritto” che non pare ammettere repliche. Sono gli ultimi anni del fascismo, in
una Calabria apparentemente graziata dal conflitto. Accostati al muro, i
braccianti agricoli attendono pazienti un ingaggio a giornata. Nessuno di loro
possiede campi, sono quasi tutti in mano al latifondista Aprici, protetto dal
podestà Ricadi e dalla legione dei Carabinieri. Solo la famiglia di Nino, epico
Antoin Doinel del sud Italia, ha un piccolo appezzamento, ma nessuno vuole
lavorare per loro: l’ordine dei potenti è ben chiaro, quelle terre fanno gola,
è necessario provocare un fallimento per poterle espropriare. Il padre
costretto ad arruolarsi coi tedeschi per 5000 lire, a metà tra il sacrificio
per la famiglia e la fuga da una situazione insostenibile, cade in Germania.
Entra nelle vite della famiglia Michele Rende, amico di Nino e amore della
sorella Miliella, carismatico e impavido ribelle alle ingiustizie sociali,
costretto progressivamente dalla sordità e dalla malafede delle istituzioni al
brigantaggio e alla fuga. Michele viene condannato, con indagini e processo
fascistissimamente sommari, persino per un omicidio mai commesso, ma durante la
guerra riesce a fuggire per combattere al fianco degli Alleati. Arrivano in
paese i bombardamenti, poi gli americani, finisce il fascismo e gli uomini di
potere vengono sostituiti, ma non cambia nulla, e i padroni continuano a
schiacciare il popolo contadino mentre Michele continua a lottare, fino alla
fine.
Renato
Castellani, nel 1960, scrive con Suso Cecchi D’amico e dirige una vera e
propria epopea sull’innocenza, sulle ingiustizie sociali, sulla paura, lucida
ed appassionata metafora della Resistenza presentata al Cinema Ritrovato di
Bologna nel (purtroppo non bellissimo) restauro digitale della versione
integrale originale. Sorta di “C’era una volta in Calabria”, Il Brigante, se
non è un capolavoro, ben poco gli manca: un colosso di 172′, proiettato per la
prima volta alla Mostra di Venezia nel ’61 e poi tagliato di oltre mezz’ora
prima della distribuzione, un film-fiume che parla di vita, di morte, di
lavoro, di affetti, delle angherie subite prima, durante e dopo la guerra, con
una profondità che supera di molto il neorealismo rosa del quale Castellani fu
fra gli apici. Gli attori, come da tradizione neorealista in buona parte non
professionisti presi dalla strada, interpretano personaggi sì di fantasia, ma
inseriti in una realtà sociale talmente bene delineata da permettere a
Castellani di raggiungere una verità storica quasi documentaristica. I loro
volti, i loro costumi e le loro mentalità sono proprio quelle dei
contadini-eroi-sconfitti protagonisti, sinceri, legati alle tradizioni,
maledettamente ‘veri’. A metà strada fra il cuore di De Seta, la precisione
antropologica di Rosi e la magniloquenza di Sergio Leone, Il Brigante è una
tragedia proletaria, affresco di realtà contadina, vista attraverso gli occhi
puri di un bambino costretto a crescere troppo in fretta.
Grazie
alla copia presente negli archivi della Biennale, è stato possibile questo
restauro, già presentato alla Mostra nel 2011, che se da un lato pecca di
eccessiva pulizia (sembra per lunghi tratti un film digitale del 2010, con
evidente violenza antifilologica nei confronti del medium) e di una luce
decisamente troppo fioca nelle scene notturne che risultano difficili da
intuire, vanta sull’altro piatto della bilancia il recupero di 34 minuti
altrimenti perduti.
“L’uomo
deva farsi giustizia da solo, sennò tanto valeva nascere donna”, dice Nino alla
madre e alla sorella Miliella. “Sono nato in questa terra violenta, siamo nati
per soffrire come un mulo bastonato” gli fa eco Michele Rende, disilluso e stanco,
subito prima del tragico epilogo. Castellani si conferma uno dei più grandi
sceneggiatori della storia del Cinema italiano, abile ad inserire
nell’intreccio lunghi istanti di una poetica straziante e sognante.
Dall’ancestrale umanità del personaggio dell’appuntato Fimiani, poca gloria e
troppi figli, unico amico nell’Arma di Nino e Michele, fino alla schiettezza
del bigamo Pataro, primo a occupare terre “per un seme di libertà” e al quale i
padroni distruggeranno il raccolto. I padroni, quei dei ex machina che
intelligentemente non si vedono mai, ma sono costantemente rappresentati
dall’alternanza di altre vittime, burattini pronti ad essere usati e scaricati.
La
sublime potenza visiva e narrativa della sequenza dei bombardamenti, come pure
quella dell’occupazione delle terre, con una massa che sembra infinita di
contadini in marcia, ha pochi eguali nella storia del Cinema, ma sono molte le
sequenze pronte a entrare prepotentemente nei cuori degli spettatori. Dal
giovane Nino che, appoggiato al muro della piazza in attesa di un lavoro,
guarda malinconico i giochi degli altri bambini, alla straziante disperazione
della madre di fronte alla scelta di Miliella, pronta ad una vita di fuga e
sacrifici pur di stare vicino all’amore Michele. È però la canzone sull’uccisione
di Pataro, cantata a bassa voce in carcere da Nino con gli altri ‘rivoltosi’ il
punto più alto del film. Castellani, in una pagina di sceneggiatura che
dovrebbe essere studiata come manuale di scrittura, la paragona allo stormire
delle foglie, concerto di rumori singolarmente impercettibili, che si alza
inarrestabile dal fitto della boscaglia.
Articolo
di Marco Romagna su cinelapsus.com del 3 Luglio 2015