CALABRIA E UNITÀ
D’ITALIA: TRA PROGRESSO E DEGRADO
Apprezzo molto l’impostazione del presente
convegno, che evita quel vezzo delle opposte tifoserie che pare caratterizzare
altrove le manifestazioni sull’argomento dell’unità; e non ha di mira qualche
imminente campagna elettorale; e colgo lo spunto per delle riflessioni, non
celebrazioni, che invece sarebbe già esprimere un giudizio positivo, cioè un
pregiudizio!
Leggerò, per cominciare, appena poche righe:
“mi duole il constatare per troppe vie officiali o quasi officiali che la
sospirata unificazione d'Italia, ahi, troppo più formale che sostanziale, non
ha recato alcun profitto nei rami più importanti della convivenza Calabrese; e
in molti anzi imprimeva un regresso: come certo nell'agricoltura, nella emigrazione,
nella criminalità, nella proprietà, nell'economia, nella morbidità, nella
nuzialità, nei morti precoci, nelle scuole; mentre i vantaggi più apparenti che
reali, più di vernice che di sostanza, perché o precoci, o inadatti, o
insufficienti come le ferrovie, le scuole, i giornali e le rappresentanze
politiche divennero nuove fonti di disagio e di criminalità, accumulando a
danno degli umili ed a profitto di troppo pochi gli inconvenienti della civiltà
insieme a quelli della barbarie”. Queste parole sono state scritte da un
brigante della Sila combattente per Francesco II, o da un superstite
reazionario del 1815. L’autore – chi lo sospetterebbe mai? – è un mostro sacro
dei più mostri sacri della cultura risorgimentale, e noto per le sue scarse simpatie,
persino biologiche e razziali, nei confronti dei Meridionali in genere. Le
leggiamo in Cesare Lombroso in Calabria,
edizione originale 1898, ripubblicato nel 2009 dalla Rubbettino, a cura di
Luigi Guarnieri, p. 133, € 7,90.
Quel Lombroso che, facendosi spedire crani di
meridionali da misurare – crani precedentemente attaccati ad una persona viva!
– concludeva che i loro proprietari, e per essi tutto il popolo, erano
criminali per natura; tornato in Calabria molti anni dopo, constatava il
degrado nei settori essenziali della vita civile, e non solo dell’economia.
Sorprende il degrado della scuola, dopo che per tanti anni, e anche oggi, ci si
dice che la scolarizzazione è stata portata dai Piemontesi, i quali invece,
dice il piemontese Lombroso, se mai l’hanno tolta! E così per le condizioni di
salute, per l’economia...
Potremmo citare qui molti altri liberali e
patrioti pentiti, i quali, subito dopo l’unificazione, si accorsero che non si
erano affatto realizzate né le loro speranze né le promesse di Garibaldi e dei
Savoia. Domenico Mauro da San Demetrio Corone, deputato del 1848, partecipò ai
fatti del 15 maggio e fu membro dell’effimero Governo provvisorio cosentino.
Condannato a morte nel 1854, era però da tempo in esilio in Piemonte, dove
collaborò ai fogli La voce della libertà,
La scintilla e Il diritto. Scrisse nel ‘51 i saggi Vittorio Emmanuele e Mazzini e nel ‘54 Degli avvenimenti politici d'Italia. Discorso storico critico. Di
idee repubblicane e piuttosto socialisteggianti, sbarcò in Sicilia con
Garibaldi nel ’60. Un patriota con tutte le carte in regola per aver diritto a
fregiarsi dell’onore di martire del bieco Borbone e di pietosissimo amatore
della Patria: e, ad onor del vero, nemmeno uno di quelli che si scoprirono
sabaudi dopo il 1860, no, uno “antemarcia”, di tempi non sospetti.
Ma ecco cosa scriveva quest’angelo vendicatore
della libertà, e non un secolo dopo la conquista piemontese, no, appena nel
1867: “Così ci governa chi venne tra noi col nome di padre? Le nostre donne non
hanno più orecchini e anelli, perché una mano, che mai non si chiude, li ha
tutti raccolti. I nostri figli coltivano i nostri poderi per un padrone che non
conoscono, poiché tutti i nostri frutti sono degli uomini che vennero a
salvarci, e su i tetti e nelle nostre porte si asside la miseria con le vesti
lacere e sozze. [...] a che mandare in esilio i nostri re, se dovevano visitare
le nostre soglie uomini che ci levarono quello che i re ci avevano lasciato?”
Molti altri hanno nomi più oscuri.
Potremmo fermarci qui, se volessimo opporre
polemiche a polemiche. Non è questo il nostro intento, bensì sforzarci di
comprendere quali fossero le condizioni reali del Meridione nel 1860, e attraverso
quali dinamiche si sia giunti agli eventi di quell’anno e del seguente.
L’evidenza insegna che il Reame, con i suoi
dieci milioni di abitanti, era ugualmente popolato del resto d’Italia, e
certamente più popolato di molte regioni d’Europa. Alla crescita demografica
non faceva riscontro alcun fenomeno emigratorio, che inizierà nel Sud solo
verso il 1895. La mamma degli Appennini alle Ande è di Genova, non è calabrese!
L’economia di sussistenza (ben diversa da
sopravvivenza!) consentiva di vivere anche a chi non trovasse una regolare
collocazione lavorativa; l’agricoltura esportava in grande quantità uve, vini,
oli, cereali; e più poli industriali – Pietrarsa, Mongiana, Razzona, San
Leucio, Portici, Castellammare... – reggevano il paragone con l’industria
europea, tenendo conto che in tutta Italia, dunque compresa Torino, c’erano
meno ciminiere che nella sola Manchester! Ancora verso il 1880 la Calabria
veniva definita dal governo unitario “regione ad alta densità industriale”. Se
dei limiti aveva una tale economia, questi erano nella scarsa capacità dei poli
industriali di diventare sistema e consentire lo sviluppo di aree circostanti;
e di essere spesso imprese di Stato, e perciò sempre un pochino assistite. Vero
che di questo controllo dello Stato beneficiavano gli operai del Regno in
termini allora del tutto sconosciuti a quelli inglesi, francesi e americani: la
fabbrica di Mongiana era circondata da case per operai quali nessun loro
collega europeo poteva sognarsi mai.
Mancava forse qualche infrastruttura, ma al
difetto di strade faceva compenso la navigazione, con una flotta mercantile di
cinquemila unità, la terza d’Europa. La cronaca delle ferrovie è paradigmatica
dei limiti meridionali di allora e di oggi: Ferdinando II progettò e finanziò
la linea Napoli – Bari – Reggio Calabria, ma esitazioni, piccoli interessi,
pareri di questo e quello, fecero sì che con il progetto e con i soldi
borbonici la sua realizzazione passi ancora oggi per sabauda!
Le problematiche del Reame non furono dunque
economiche, bensì politiche e amministrative, cioè di classe dirigente. I
generali napoletani che si fecero così facilmente sconfiggere da Garibaldi
furono forse più incapaci che traditori; e la responsabilità ultima di averli
promossi a quei gradi, e di non averli puniti (nel 1849 il generale piemontese
Ramorino venne fucilato per molto meno di Calatafimi), risiede nella monarchia,
e nell’assenza di un vero partito regio. Tale debolezza politica non è affatto
risolta, se, in un secolo e mezzo, rari sono stati i politici meridionali, e
ancor meno quelli calabresi, che siano stati capaci di contare qualcosa a Roma;
e i più furono e sono dei perfetti sconosciuti, disoccupazione intellettuale
alla ricerca di uno stipendio, e perciò muti su qualsiasi argomento appena
impegnativo!
Se questi convegni, infatti, hanno un senso, non
possono esaurirsi nella disamina storiografica, ma devono indurre ad analizzare
il presente e gettare uno sguardo sull’avvenire.
Eterne, s’intende eterno per quanto è umano,
sono le Nazioni. Gli Stati, nascono e muoiono; e una mattina potremmo
svegliarci senza il Belgio, come già ci è accaduto con Unione Sovietica,
Iugoslavia, Cecoslovacchia; e solo gli appassionati di calcio si ricordano che
c’erano due Germanie. Dal 1914 ad oggi, solo Portogallo, Spagna e Danimarca non
hanno mai cambiato i confini. La Francia, dal 1789, conta tre diverse
monarchie, due imperi e cinque repubbliche più Vichy. Gli assetti territoriali,
e quelli politici interni degli Stati, possono nascere e cambiare, e ogni tanto
anche morire.
L’Italia nacque come Regno costituzionale
unitario, e nel 1946 divenne una Repubblica, ma pur sempre unitaria e
centralista di modello napoleonico. Le identità regionali vennero riconosciute
sul piano storico e culturale, ma solo nel 1970 divennero operative, e solo come
circoscrizioni amministrative. Ma l’assetto unitario del 1861 non era stato mai
ideologizzato da alcuno, tranne in qualche modo dallo spiritualismo mazziniano
dal non scomodo esilio londinese; laddove i Gioberti, i Balbo, gli stessi
repubblicani Cattaneo e Pisacane avevano propugnato tesi di unità politica sì,
ma sotto forma di confederazione o al massimo di federazione tra Stati italiani
che, ad onta della vulgata, non erano nati nel 1815 al Congresso di Vienna,
bensì vantavano secoli di vita non più e non meno felice di tanti altri del
continente. Il Meridione in quanto Stato, se contiamo anche il Ducato
longobardo di Benevento, risaliva al 568 d.C.; se ci contentiamo dei Normanni,
al 1060, ed era comunque tra le più antiche entità politiche del mondo di
continuità storica.
Se un lieve divario c’era tra Nord e Sud – ma
mi si permetta di dubitare di certe statistiche circa i secoli passati, chissà
su quali dati costruite! – questo è enormemente cresciuto dal 1860. Siamo a
Crotone, dove il nucleo industriale è stato smantellato, e al suo luogo è spuntata
la Provincia: triste metafora di un Meridione improduttivo ed esposto
all’assistenzialismo indiretto del pubblico impiego, più comunemente detto il
posto.
Abbiamo piuttosto bisogno di recuperare
l’autonomia produttiva, attraverso l’analisi del territorio e delle sue
potenziali risorse: agricoltura, allevamento, filiera boschiva, artigianato e
industria di trasformazione, turismo... Ed esaltare il lavoro, dopo troppi anni
di poco nobile inseguimento del posto: posto di lavoro, in Calabria, è un
ossimoro!
Occorre un rinnovamento radicale di classe
dirigente e politica e culturale, e forse prima di tutto di questa, superando
certe tendenze alle comode astrazioni universalistiche e palingenetiche e
all’eterno rinvio delle soluzioni. Ci serve una moratoria filosofica, e che i
dotti calabresi si contaminino con la concretezza della quotidianità, e
indichino operatività per l’immediato e per tempi non apocalittici, e che
ognuno di noi possa sperare di vedere in vita.
Ulderico Nisticò
Nato a Catanzaro Sala, vive a Soverato
Laureato in Lettere Classiche (Università
degli Studi di Pisa, 1974). Insegna Italiano, Latino, Greco e Storia.