Giacomo Casanova |
“Cosenza
è una città dove una persona dabbene può divertirsi: ci sono nobili ricchi,
belle donne e persone molto istruite che sono state educate a Napoli e a
Roma"
GIACOMO
CASANOVA
Giovanni
Giacomo Casanova
Venezia
1725 – Dux (Boemia) 1798
Avventuriero
e letterato
Viaggiò per tutta l’Europa, vivendo spesso di
espedienti, ma godendo della stima di sovrani e intellettuali. Occultista,
massone e agente segreto, fu accusato di ateismo e libertinaggio e imprigionato
nei Piombi di Venezia da cui riuscì a fuggire (il tutto è narrato nel libro Storia della mia fuga, scritto in
francese nel 1788). Negli ultimi anni della sua vita fu bibliotecario del conte
di Waldstein a Dux in Boemia. Lì, sempre in francese, scrisse La storia della mia vita (1791-1798),
conosciuta anche col titolo di Mémoires:
vivace affresco della società settecentesca prerivoluzionaria.
Nel 1743 (secondo altri nel 1744), grazie all’interessamento della
madre, partì per la Calabria, per raggiungere il vescovo Bernardino de
Bernardis (1699-1758), designato alla diocesi di Martirano. Una volta giunto a
destinazione, spaventato per le condizioni di povertà del luogo, chiese e
ottenne di essere trasferito.
Casanova afferma di avere mangiato in Calabria "sublimi
salumi", di avere bevuto il "nettare dei cedri" di Cirella, di
avere ricevuto dall’Arcivescovo di Cosenza il vino di Gerace e i mezzi per
tornare a Napoli.
Di seguito un passo delle sue memorie dove fa un
brutto ritratto della Calabria di quel periodo:
“Partimmo in compagnia di due preti che dovevano
recarsi a Cosenza e insieme percorremmo le centocinquanta miglia che ci
separavano dalla Capitale della Calabria in ventidue ore. Quindi, l’indomani
stesso del mio arrivo, presi un calesse per recarmi a Martirano. Durante il
viaggio contemplavo il famoso Mare Ausonium. Guardavo con meraviglia quel paese
famoso per la sua fertilità, nel quale, però, nonostante la prodigalità della
natura, vedevo soltanto miseria: vi mancavano, infatti, tutte quelle
incantevoli cose che, per quanto superflue, contribuiscono a rendere bella la
vita e gli stessi pochi abitanti in cui mi imbattevo mi facevano vergognare di
appartenere al genere umano… Mi resi conto allora che i Romani non avevano
torto di chiamarli bruti invece di Bruzi… Trovai il vescovo Bernardo de
Bernardis intento a scrivere, seduto a una misera tavola. Era un bel frate, con
la croce episcopale sul petto. Mi ricordava il padre Mancia, ma aveva un
aspetto più robusto e meno riservato. M’inginocchiai davanti a lui, ma invece
di benedirmi si alzò, mi sollevò e mi abbracciò stretto… Sospirò, mi parlò di
dispiaceri e di miseria, e ordinò ad un domestico di mettere in tavola un terzo
coperto. Oltre a quel domestico, aveva una serva di aspetto più che canonico, e
un prete che, dalle poche parole che pronunziò a tavola, mi sembrò un grande
ignorante. La casa vescovile era spaziosa ma mal costruita e mal tenuta. C’era
tanta penuria di mobili che per farmi preparare un lettuccio, in una stanza
vicina alla sua, dovette cedermi uno dei duri materassi su cui dormiva. Il
pranzo, poi, era talmente misero che mi spaventò: in effetti il vescovo era
molto osservante della regola del suo ordine e mangiava di magro. Per di più
l’olio era cattivo. Ma, Bernardo De Bernardis, era un uomo intelligente e, quel
che più conta, onesto. Mi disse, e ne fui molto meravigliato, che il suo
vescovado, pur non essendo dei più poveri, gli rendeva soltanto cinquecento
ducati del regno all’anno e che, per colmo di sventura, era già indebitato per
seicento. Gli chiesi se aveva dei buoni libri, della gente colta da frequentare
qualche persona distinta con cui passare piacevolmente un paio d’ore. Mi
confidò sorridendo che in tutta la diocesi non c’era nessuno che potesse
vantarsi di sapere scrivere bene e tanto meno che avesse un po’ di gusto o una
qualche idea di cosa fosse la buona letteratura... Nella Chiesa Madre, il
giorno dopo, il vescovo celebrò la messa pontificale e potei vedere tutto il
clero, tutte le donne e tutti gli uomini che riempivano la cattedrale. Fu
allora che presi la mia decisione e mi sentii fortunato di poterla prendere.
Quelle che avevo davanti erano un branco di bestie che mi guardavano
scandalizzate per il mio aspetto esteriore. Le donne poi erano di una bruttezza
spaventosa… non appena fummo soli dissi chiaro e tondo a monsignore che non mi
sentivo la vocazione di finire martire, nel giro di pochi mesi, in quel luogo…
Anzi venga via anche lei!...La proposta lo fece ridere per il resto della
giornata, ma se avesse accettato, non sarebbe morto di lì a due anni nel fiore
dell’età… Così sessanta ore dopo esserci arrivato, lasciai Martorano.
L’arcivescovo di Cosenza, uomo intelligente e ricco, volle ospitarmi in casa
sua. A tavola, feci con slancio le lodi del vescovo di Martorano, ma criticai
spietatamente la sua diocesi e poi tutta la Calabria, con tanto mordente che
l’arcivescovo fu costretto a riderne con tutti i suoi ospiti… Partii dopo tre
giorni di permanenza… feci tutto il viaggio con cinque figuri che avevano
l’aria di essere corsari o ladri di professione.[…] ritenni prudente dormire
sempre con addosso i pantaloni: precauzione necessaria più che per proteggere
il denaro, per proteggere qualcosa d’altro, in un paese dalle tendenze
tutt’altro che raccomandabili come quello. Arrivai a Napoli il 16 settembre
1743…”