Ezio Scaramuzzino in una foto dell'Archivio Aprigliano |
Gli anni perduti
Sono al paese, che non rivedo da un po’
di tempo. Non mi è facile trovare un posteggio, cosa una volta facilissima.
Giro tutt’intorno, in lungo e in largo, e alla fine trovo un angolino in piazza
Oberdan, di fianco alla colonnina del carburante, dove una volta le auto si
fermavano a fare il pieno con un paio di migliaia di Lire. Gaetano Citriniti,
il gestore, interrompeva ogni altra attività del suo multiforme esercizio
commerciale ed accorreva ogni volta che qualche autista impaziente lo chiamava
a colpi di clacson. Ricordo le risate tra amici, quando qualcuno raccontava del
contadino che, vista per la prima volta quella colonnina che misurava il
carburante con delle lancette, si fermò a regolare il suo orologio. Ora Gaetano
non c’è più, anche la pompa di benzina sembra abbandonata ed è chiusa anche la
porta di quella sua cantina, dove una volta tanti paesani andavano a bere un
bicchiere di vino, magari con un rametto di sedano che faceva capolino da una
delle tasche della giacca.
Fa molto caldo e il sole picchia in
maniera inclemente sulle persone e sulle cose. Ho bisogno di un po’ d’ombra e
mi dirigo sul lato opposto della piazza, sulla veranda, dove una volta era
l’ingresso del Bar Centrale. In quel bar, ancora ragazzo, ho giocato le mie
prime partite di Terziglio e, insieme con gli amici di un tempo, ho dato
alimento ai primi sogni della mia vita. Lì ho conosciuto alcune persone, che
ricordo ancora con gratitudine e simpatia, come l’avvocato Giuseppe Barca o il
truffatore Cesarino Moncalvo. Lì ho trascorso una parte della mia giovinezza ad
osservare il passeggio sulla piazza antistante o a scambiare quattro chiacchiere
con Gigi Paparo, il proprietario del bar. Gigi gestiva contemporaneamente il
bar ed un negozio di alimentari posto sul retro e correva da una parte
all’altra, sempre con una biro appoggiata sull’orecchio destro, che afferrava
velocemente per fare conti e riponeva subito dopo in miracoloso equilibrio.
Quando c’erano pochi avventori ed il lavoro era ridotto al minimo, Gigi ne
approfittava per leggere la sua immancabile ed amata Domenica del Corriere, che
teneva sempre al suo fianco e che metteva a disposizione dei clienti solo
quando usciva il nuovo numero. Ricordo ancora con affetto Gigi, che sarebbe
scomparso prematuramente, lasciando nel dolore la moglie e i tre figli.
Sulla veranda non ci sono più le sedie
e i tavolini di un tempo e la porta di ingresso è malinconicamente chiusa. Mi
siedo all’ombra sul marciapiede antistante e osservo da lontano, sul lato
opposto della piazza, le finestre e la porta chiusa del Bar Sportivo. Solo
l’insegna in alto, scolpita in cemento, ricorda che lì c’era un altro ritrovo
di noi giovani, che vi andavamo a giocare al flipper o al calcio balilla. Il
gestore era un giovane come noi, Gaetano, e passava più tempo con noi a
giocare, che dietro il bancone a servire i rari clienti. Si giocava molto al
flipper allora e il premio per il vincitore dei vari tornei era quasi sempre
una piccola torta Fiesta, che vinsi più di una volta, suddividendola poi con
gli amici e bevendoci sopra un bicchiere di birra. Gaetano un giorno, assunto
come vigile urbano, avrebbe cessato di fare il barman, preferendo giustamente
lo stipendio modesto, ma sicuro, alla fine del mese, piuttosto che gli incassi
aleatori della sua attività commerciale.
Mi alzo e mi incammino lungo viale
Puccini, la strada della mia fanciullezza. Su quella strada abitavano i
Garieri, i De Biase, i Tallarico. Vedo venirmi incontro Peppe Coriale, detto
“’U Zaré”. Faccio un rapido calcolo e penso che dovrebbe essere ultracentenario,
mentre la sua immagine sembra essersi fermata al tempo di quando io ero
bambino. Mi sorride e io ricordo di quando, ragazzo, sotto un grande albero
posto di fronte casa mia, in Estate, gli leggevo la novella di Mazzarò e lui
ascoltava incantato ed affascinato. E non si stancava mai e mi chiedeva di
leggergli e raccontargli ancora una volta la novella di Mazzarò, che da uomo
povero e miserabile era finito col diventare il padrone di tutto il paese.
Questa volta però Peppe non mi chiede di raccontargli ancora una volta quella
storia. Mi tocca sulle braccia, come se volesse controllare la mia consistenza,
poi si limita ad accennare un saluto con la mano e infine, silenziosamente,
scivola via. Mi giro indietro a seguire con lo sguardo il suo cammino e non lo
vedo più, come se si fosse dissolto
nella nebbia del tempo.
Arrivo allo spiazzo antistante la
cappelletta di San Leonardo. Nella luce accecante del primo pomeriggio ho
l’impressione di vedere sull’uscio di casa Nonna Betta, vispa e incline a
scherzare un po’ con tutti, ma che non sopportava in alcun modo gli schiamazzi
e gli strilli dei bambini. Quante storie con lei e quante fughe, quando ci inseguiva con la scopa e ci costringeva ad
interrompere i nostri giochi! Altri tempi e altri trastulli, quelli della mia
fanciullezza, quando ci bastava poco per essere felici e un semplice ramo
appuntito bastava a farci sentire invincibili come Zorro. Costruivamo degli
aquiloni ritagliando la carta dei giornali, che poi incollavamo con farina e
acqua. Eppure quegli aquiloni, incredibilmente pesanti, volavano e si libravano
in aria leggeri come farfalle: forse erano sospinti in alto dai nostri desideri
di fanciulli che si affacciavano alla vita. Mi volto a guardare ancora nonna
Betta, ma l’uscio è deserto e ho l’impressione di avvertire soltanto il cigolio
lamentoso di un’anta che sembra richiudersi su se stessa.
Sulla sinistra, ad una biforcazione,
c’è un viale che porta all’edificio scolastico, dove tanti anni fa ho mosso i
primi passi di insegnante. Non opero alcuna scelta nel decidere la mia
direzione e muovo i miei passi verso quel viale. Non so perché succeda: forse
sono alla ricerca della mia identità perduta, forse voglio solo recuperare le
ombre e i fantasmi di una vita che non c’è più. Sollevo gli occhi e vedo una
signora che mi sorride e mi saluta. Qualche piccola ruga che increspa il suo
volto non mi impedisce di riconoscerla: è Marilù. Mi prende sottobraccio e mi
invita dolcemente a ritornare indietro. Vorrei farle tante domande, chiederle
dove si trova, dirle che l’ho ricordata a lungo, ma mi accorgo che un pizzico
di emozione, ancora dopo tanti anni, mi rende impreparato e incredulo.
Camminando, ci guardiamo in silenzio:lei è ancora bella, come una volta, come
in quella Primavera di tanti anni fa, quando entrambi eravamo meravigliati
della nostra felicità e procedevamo insieme, senza sapere e senza preoccuparci
di quello che la vita ci avrebbe riservato. Quando ci fermiamo, Marilù si
stacca dolcemente dal mio braccio, mi accarezza il volto, continua a sorridere,
si allontana e infine sembra dissolversi, ombra tra le ombre. Non la vedo più.
Affronto una leggera salita, quella che
porta verso la strada Nazionale. Ho voglia di fermarmi un pochino e mi appoggio
ai tubi e al muretto basso dove una volta, in Estate, ascoltavamo tutti insieme
le avventure dell’avvocato Barca. Vedo arrivare in lontananza Romano, Romano
Cizza, e ho un tuffo al cuore. Quanti giorni della nostra vita abbiamo
trascorso insieme! Quanti ricordi! Caro Romano! Come è possibile che tu sia
qui? Viene con decisione verso di me e, quando mi è accanto, gli chiedo degli
altri. Gli dico che ogni tanto vedo Totò al paese, ma gli altri, gli altri
certo, Ciccio e Nino Simbari, Ciccio Rizzuto, e Totò Rizzuto, “il capitano”
come lo chiamavamo, e Leonardo e Mimmo, e tutti gli altri, dove sono? Eravamo
partiti insieme, quasi tenendoci per
mano, per affrontare meglio le tempeste e poi ci siamo persi, lungo le strade e
i sentieri della vita. Romano mi sorride mestamente, ma non parla e si avvia da
solo lungo la strada. Istintivamente mi viene voglia di seguirlo, per fargli
altre domande, per chiedergli se ha qualche rimpianto, qualche desiderio.
Vorrei anche chiedergli se ha qualche
segreto da svelarmi ora che, nella sua condizione, avrà certamente capito il senso della vita e ancora se si trova bene dove si trova. Romano si
gira improvvisamente, mette un dito sulle labbra, come per suggerirmi il
silenzio, e con la mano mi fa chiaramente capire che non debbo seguirlo.
Avverto un senso di smarrimento e di
vertigine e, mentre mi appoggio ai tubi del muretto basso, chiudo strettamente
gli occhi. Li riapro con fatica, perché la luce del sole intorno è ancora
abbagliante, e vedo che accanto a me c’è un bambino. Avrà sei o sette anni quel
bambino e mi guarda con l’atteggiamento di un monello di strada, quasi con un
senso di sfida. Poi mi fa marameo con la mano sinistra, puntando il pollice sul
suo nasino affusolato e con la destra accenna un saluto. Lo osservo con
attenzione: ha i capelli castani, qualche ricciolo in testa, le guance paffute,
dei pantaloncini sporchi di sabbia, un ginocchio sbucciato, una fionda che fa
capolino dalla tasca posteriore.”Mi riconosci?”, mi chiede. Gli rispondo
gentilmente che, purtroppo, non so chi sia. E lui ancora: “Possibile che non mi
riconosci?”. Lo guardo ancora e noto che sulla palpebra sinistra ha una piccola
cicatrice, quasi impercettibile. E allora lo riconosco: è lui, giunto fino a me
attraverso i sentieri del tempo e dello spazio. Allungo una mano e gli
scompiglio affettuosamente i capelli, lo accarezzo, prendo la sua piccola mano.
Vorrei tanto trattenerlo con me, perché
l’ho tanto cercato. Ma in lontananza appare una giovane donna e mi accorgo che
ci sta osservando . Una strana ed improvvisa folata le scompiglia i capelli che
ondeggiano al vento. Lei si aggiusta i capelli e con una voce dolcissima chiama
a lungo: ”Ezioooooo…”. Rivedo in un attimo, come in un flashback, la mia vita,
gli anni perduti. Il bambino lascia dolcemente la mia mano. “Debbo andare”, mi
dice. Poi se ne va e si dirige verso quella giovane donna, porgendole la sua
piccola mano. Entrambi si avviano, si girano indietro per l’ultima volta, come
per un ultimo saluto, poi si allontanano e spariscono nel nulla.
Articolo pubblicato sabato 14 luglio 2012
dal sito UNLA di Scandale