Sopra, la copertina dell’edizione
tedesca: Gian Paolo Callegari Die Barone,
traduzione di Charlotte Birnbaum, Hamburg, 1953.
Gian Paolo Callegari, I Baroni, Milano, Garzanti, 1950.
Ecco un
libro che viene a collocarsi nella nostra migliore letteratura meridionalistica,
non soltanto, come è stato detto, accanto a Verga e Capuana, ma in certo qual
modo anche a Dorso e a Levi. Il suo tema è appassionante, la presentazione
dell’editore vuole avvertirci “che il problema del latifondo è trattato sulla
base di episodi veri desunti da un carteggio borbonico inedito e dai racconti
raccolti dalla viva parola di un centenario di Scandale nel crotonese”. Questo
può non interessare, come può non interessare l’avvertimento che ai baroni
rovinati succederanno i loro servi, “mentre la turba di contadini superstiziosi
e primitivi abbandonerà la via del timor degli uomini e di Dio”. Quel “timor
degli uomini” che ha ceduto all’attuale bisogno di liberazione delle masse
meridionali, e quel “timor di Dio” che era concepito come “le preghiere che
servono da orologio” (p. 119). La bellezza delle 318 avvincenti pagine del
libro nell’intensa e vivacissima vita di cui vivono tutti, il barone, la
baronessa, il baronetto scemo, la baronessina ninfomane, il servo fattore, e
medici, avvocati, contadini, pecorari, arcipreti e vescovi; vivono i carbonari
e gli intellettuali progressisti; gli strozzini e i gabellieri la corte del re
di Napoli e gli aristocratici collegi della città regale. Qui è il vero valore
artistico del libro: che non è a tesi e che proprio per questo riesce a porre
in primo piano, al di là e al di sopra dei singoli personaggi, quello che si
chiama il problema meridionale.
L’azione si
svolge durante uno dei momenti più travagliati della storia del Mezzogiorno d’Italia: è l’epoca del
tramonto dei Borboni e dell’avvento delle camicie rosse garibaldine. Ma i paesi
di montagna sono troppo lontani dalle strade per le quali passa quella che
poteva essere una rivoluzione, la cui eco giunge come un sogno e il cui effetto
resterà limitato alla capitale e ai pochi altri centri maggiori; effetto
d'altronde destinato a spegnersi rapidamente tra un Piemonte tradizionalista e
un Meridione feudale. Il feudalesimo ivi risorge continuamente dalle sue
ceneri: nessuna rivoluzione democratica riesce a spezzarlo: né quella del 1860,
né quella del 1876, né quella socialista dei primi del secolo.
Questo
tragico destino dei cafoni, di fronte ai “galantuomini” le cui stirpi si
rinnovano continuamente, passandosi di generazione in generazione le terre
incolte, è lo sfondo sul quale magistralmente si stagliano i protagonisti.
ORSOLA DE CRISTOFARO
Il PONTE, Rivista mensile di politica e
letteratura, anno VI – n° 9-10, Settembre – Ottobre 1950.