La Ghigliottina in un dipinto d'epoca. |
Di Vandea si è tornati a parlare in
Francia, in Parlamento, sui giornali e sugli schermi televisivi. L’Ump, il
partito di opposizione, ha presentato in Assemblea nazionale un disegno di
legge che ha lo scopo di riconoscere il «genocidio vandeano», che ebbe luogo,
a più riprese, tra il 1793 e il 1796 per opera delle truppe rivoluzionarie di
Robespierre nei confronti degli abitanti della regione contadina della Vandea.
I sostenitori della tesi del genocidio parlano di una «congiura del silenzio»,
in cui la politica e la storiografia avrebbero cospirato perché cadesse
nell’oblio il grande sacrificio dei vandeani, colpevoli di aver difeso le loro
convinzioni religiose contro il nuovo potere ateo e giacobino. Le «colonne
infami» repubblicane compirono spietati massacri contro i vandeani, lasciando
sul terreno dai duecentocinquanta ai trecentomila morti.
«Se approvasse la proposta sul genocidio,
la Repubblica
accetterebbe per la prima volta di guardarsi allo specchio», ha scritto sulla
rivista Causeur lo storico Frédéric Rouvillois. «Per la prima volta
riconoscerebbe il terribile delitto che ha segnato l’inizio della propria
storia». Di parere opposto lo storico della Rivoluzione francese, Jean-Clément
Martin: «I crimini sono crimini, ma manca la logica». Significa che i vandeani
non furono sterminati in quanto tali, ma sono stati vittime di una guerra
civile. Lo spiega così Alain Gerard: «La Rivoluzione non poteva ammettere che il popolo si
ribellasse contro di lei. Per questo la Vandea doveva scomparire».
La tesi del genocidio è stata portata
avanti da Reynald Secher, uno dei maggiori storici delle guerre vandeane, secondo
il quale «quelle rappresaglie non corrispondono agli atti orribili, ma
inevitabili, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga
e atroce guerra, ma proprio a massacri premeditati, organizzati, pianificati,
commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la volontà cosciente e
proclamata di distruggere una regione ben definita e di sterminare tutto un
popolo, di preferenza donne e bambini» («Il genocidio vandeano», EFFEDIEFFE
Edizioni, 1989).
Tutti i libri in latino, fossero pure i
«Colloqui» di Erasmo da Rotterdam, finirono nel fuoco. I preti nella trappola
di Rochefort furono più di quattrocento. Nelle loro ciotole di legno la Rivoluzione versò solo
carne putrida, merluzzo andato a male, malsane fave di palude. L’acqua era
infetta. A chi ne chiedeva di più, i fidati seguaci della Dea Ragione
rispondevano di servirsi pure, mostrando a dito l’oceano. Vi furono presto
casi di delirium tremens, di follia. In poche settimane fu un’ecatombe di
sacerdoti. I guardiani abbandonarono la nave. I morti venivano scaraventati in
mare o seppelliti nella palude. Per non sbagliare qualcuno venne sepolto mentre
ancora respirava.
In Vandea la guerra non ebbe un centro,
ma era dappertutto, perché ovunque vi fosse un vandeano, fanciullo o adulto,
uomo o donna che fosse, là per la
Repubblica si trovava un «soldato nemico». Nessuna delle
regole dell’antica arte militare fu rispettata in quella guerra, perché fu la
«prima guerra moderna», in cui dei civili si fece carne da macello. In Vandea
le armi principali furono le preghiere nelle chiese solitarie, le corone di
rosario agli occhielli, i «sacri cuori» cuciti agli abiti, le processioni e le
riunioni nei boschi, i giuramenti di rifiutarsi al reclutamento, i racconti dei
miracoli, fu la rivolta di tutto un popolo, in cui le congiure erano nascoste
dietro l’altare di ogni borgo contadino. I sacerdoti officiarono nelle brughiere
e nelle paludi. Per primi s’armano i contadini. Mentre altrove in Francia sono
state le classi superiori ad avere spinto il popolo, nella Vandea
cristianissima è il popolo a incitare le classi superiori.
A dispetto di certa storiografia, i
contadini della Vandea non erano monarchici più di altri, non furono supini
sostenitori dell’Ancien Régime. Erano profondamente cattolici. L’origine di
questa fedeltà vandeana alla chiesa ebbe radici antiche, affonda in un passato
di simpatie calviniste e nell’opera di catechizzazione dei missionari della
Compagnia di Maria e delle Figlie della Saggezza.
Il generale vandeano era un venditore
ambulante. Si chiamava Jean Cathelineu, per tutti «il santo d’Anjou». È intento
a impastare il pane, quando sente la voce che gli comanda di alzarsi e mettersi
a capo di questa guerra santa. Guida una folla armata di falci, bastoni e pochi
fucili, in cui le donne, nei campi e nei boschi, pregano in ginocchio per la
vittoria dei loro mariti e figli. Da ogni angolo della regione si leva un
augurio che è un grido di odio verso i giacobini e il loro ateismo. I vandeani
conquistano le città e poi le abbandonano. La facoltà di dissolversi e ricomporsi
è la loro forza e la loro debolezza. Guidati dal santo di Anjou attraversano a
decine di migliaia la Loira
per liberare Nantes, per coinvolgere nella loro guerra i fieri «chouans»
realisti della Bretagna.
Papa Karol Wojtyla ha beatificato,
durante il suo pontificato, 164 di questi «martiri» della Rivoluzione francese.
Nel corso di una controversa visita in Vandea, pronunciò un discorso ben
lontano dal revanchismo. Nel rendere onore ai vandeani caduti nell’impari lotta
contro le armate illuministe, Giovanni Paolo II sottolineò la loro
testimonianza di fede, ma trascurò, se non addirittura condannò, il senso
politico della controrivoluzione. Forzando un po’ la storia, il Papa affermò
che anche i vandeani «desideravano sinceramente il necessario rinnovamento
della società», circoscrisse alla difesa della libertà religiosa la loro
ribellione, non tacque i «peccati» di cui anch’essi si erano macchiati
nell’asprezza della lotta (sanguinose furono le rappresaglie vandeane contro i
rivoluzionari).
Anche nella chiesa cattolica ci sono
opinioni differenti sulla Vandea. Padre Giuseppe De Rosa sulla Civiltà
Cattolica ad esempio ha scritto che la guerra di Vandea di due secoli fa
andrebbe guardata con maggiore «spirito critico», senza farne una «bandiera» e,
tanto meno, il «simbolo dell’autentico cristianesimo». Di diverso avviso
l’arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, secondo il quale «in quanto
è avvenuto in Vandea trovano le loro premesse le stragi che hanno insanguinato
l’intero XX secolo in nome o di un assurdo ideale di giustizia, di un’aberrante
esaltazione di una nazione o di una razza, o di un egoismo mascherato da civile
comprensione».
È la rivelazione del male compiuto da
Robespierre. E anche Jean Tulard, docente all’Università Paris IV ed esperto di
Vandea, paragona le azioni dei giacobini agli eccidi ordinati da Stalin. Gli
storici non amano i paragoni con l’Olocausto. Ma della Vandea parlano come di
un «popolicidio», mentre a lungo storici marxisti hanno letto la guerra di
Vandea come una guerra della borghesia centralizzatrice delle città contro il
popolo contadino.
Varrà la pena di ricordare che i
vandeani sono stati sterminati con metodi non dissimili da quelli nazisti. Così
si legge sul Bollettino ufficiale della nazione: «Bisogna che i briganti di
Vandea siano sterminati prima della fine di ottobre. La salvezza della patria
lo richiede». I vandeani sono considerati degli «ominidi», delle sottospecie di
uomini, e in quanto tali non aventi diritto a un territorio.
Il nome stesso Vandea viene eliminato,
deve scomparire. Si assegna un nuovo nome alla Vandea chiamandola
«dipartimento Vendicato», per esprimere appunto questa volontà di ripopolare
quella parte di Francia un tempo abitata da «cattivi francesi».
Quello della Vandea è il primo
genocidio della storia ideologica del mondo contemporaneo. Le Colonne
infernali, tagliagole al comando del generale Louis Marie Turreau, devastarono
la regione con feroce acribia cartesiana. Fucilazioni, annegamenti, falò di
parrocchie zeppe di civili, camere a gas. C’era l’onta di un pezzo di Francia che
aveva osato levarsi contro la volonté générale, ma anche il diffondersi d’idee
malthusiane in una Francia attanagliata dalla fame per colpa della stessa
rivoluzione. Così i giacobini concepirono, votarono all’unanimità e
realizzarono l’annientamento di un gruppo umano religiosamente identificabile.
Con ben due leggi, scritte e conservate negli archivi militari: il 1° agosto si
decise la distruzione del territorio, degli abitati, delle foreste e
dell’economia locale; il 1° ottobre si ordinò lo sterminio degli abitanti,
prima le donne («solchi riproduttori») poi i bambini. Leggi in vigore fino alla
caduta di Robespierre, nel luglio 1794. Tutto come Hitler prima di Hitler.
Si usò in Vandea il termine «race»: un
vocabolo che, di conio illuminista (Voltaire, Buffon, l’Encyclopédie), produsse
lì subito l’idea di una «race maudite» da estirpare. Bertrand Barè- re, membro
del «Comité de salut public», gridava dalla tribuna: «Quelle campagne ribelli
sono il cancro che divora il cuore della Repubblica francese».
Quanti furono i morti? Un vandeano su
tre? Centoventimila o seicentomila, come sostiene lo storico Pierre Chaunu?
«Qualsiasi rivoluzione scatena negli uomini gli istinti della più elementare
barbarie, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio», disse il
grande scrittore russo Aleksandr Solzenicyn quando inaugurò a Lucs-sur-Boulogne
un memoriale dedicato ai martiri del massacro perpetrato in questa piccola
località dalle truppe repubblicane del generale Cordelier. In poche ore, fra
il 28 febbraio e il primo marzo del 1794, furono uccise 564 persone, fra cui
110 bambini al di sotto dei sette anni.
«Il XX secolo ha notevolmente
ottenebrato l’aureola romantica della rivoluzione del XVIII secolo», disse
ancora l’autore di «Arcipelago Gulag».
Nonostante le esecuzioni sommarie di
Angers, nonostante le «noyades», gli annegamenti notturni a Nantes, in cui
senza processo in due mesi vennero gettati nell’estuario della Loira da due a
tremila tra preti «refrattari», la resistenza della Vandea non venne domata.
Per vincere i vandeani, caduto il Comitato di salute pubblica, la Rivoluzione pensò di
ricorrere a «la douceur», alla dolcezza. Si consigliò ai soldati dalla casacca
azzurra di partecipare alle funzioni nei villaggi, di rispettare i preti e la
fede della povera gente. Alla fine era la Vandea che aveva vinto, seppure da un immenso
cimitero.
Al termine della guerra, il generale
francese Joseph Westermann spedì una breve lettera al Comitato di salute pubblica:
«Non c’è più nessuna Vandea. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho massacrato
i bambini sotto i cavalli e le donne non daranno più alla luce briganti. Non ho
prigionieri. Li ho sterminati tutti». Sembra un inveramento delle parole pronunciate
negli anni del Terrore dal celebre moralista Chamfort: «La Rivoluzione è un cane
randagio che nessuno osa fermare».
Articolo del giornalista Giulio Meotti su
Il Foglio del 18 Marzo 2013