Sopra la locandina del film. Sotto, una scena che riguarda l’occupazione delle terre nel Marchesato. Foto del film Il Brigante. Archivio cinematografico privato, Roma.
Anno 1960, Durata 143 minuti.
Origine ITALIA
Genere DRAMMATICO, SOCIALE
Formato SCHERMO PANORAMICO
Tratto DALL'OMONIMO ROMANZO DI GIUSEPPE BERTO
Produzione ANGELO RIZZOLI PER CINERIZ
Distribuzione CINERIZ (1961)
Regia: Renato Castellani
Attori :
Serena Vergano Miliella
Renato Terra Natale Aprici
Angela Sirianni Nonna Di Nino
Francesco Seminario Nino Stigliano
Salvatore Moscianese Don Francesco Tomea
Francesco Mascaro Bovone
Mario Jerard Pataro
Elena Gestito Madre Di Nino
Anna Filippini Giulia Ricardi
Adelmo Di Fraia Michele Rende
Giovanni Basile Appuntato Fimiani
Soggetto: Giuseppe Berto
Sceneggiatura: Renato Castellani
Fotografia: Armando Nannuzzi
Musiche: Nino Rota
Montaggio: Jolanda Benvenuti
Giuseppe Marotta, Facce dispari, Milano, Bompiani, 1963.
Troppi conti bisogna fare con Il brigante di Castellani; beato lo spettatore comune, semplice, innocente, che può, sul filo teso delle emozioni, abbandonarsi al film come se appartenesse alla nera folla che vi si agita, alle rocce e agli alberi che il vento vi sferza o vi accarezza. Diamine. Il brigante è la storia di un amore, anzi due; è la storia di un uomo allevato, per così dire, da una morte che ha l'infallibile cronometro della tragedia sull'osso dell'iniquo polso; è la storia di un paese e di gente infelice; è la storia di una guerra e di un dopoguerra; è un groviglio di storie in una storia. Che succede, in generale, a un artista oberato di argomenti? Deve lasciarli e pigliarli ogni momento, con una virtù di giocoliere, difficile e imbarazzante anche se il narratore si chiami, tanto per fare un solo nome, Tolstoj. A me datemi l'universo in una goccia d'acqua, in una lama di pulviscolo solare; datemi la vita nel cavo della mano di un poeta, ossia la vita ridotta a un palpitante cuore di vita. Conoscevo, naturalmente, il romanzo di Berto che ha suggerito a Castellani il film Il brigante. Una prosa asciutta come la pomice, densa e amara, non più che un panno intorno alle reni dei fatti e dei sentimenti; un racconto sostantivatissimo, oggettivo al massimo, e però (scusami, Peppino, la sincerità mi affoga) un po' arido. Castellani, ovviamente, non vi ha mutato gran che; se non erro è diversa la condizione della famiglia Stigliano: di proprietariucci nel libro, di miseri affittuari nel film; per il resto immagino che Berto sia contento: c'è finanche quell'ombra o luce di Veneto che qua e là venava la Calabria del romanzo.
L'apertura è vagamente dickensiana (Grandi speranze): Nino Stigliano, un ragazzetto dodicenne della famiglia che ho detto, una mattina s'imbatte nel cacciatore di frodo Michele Rende. Legano subito; Michele è per Nino l'uomo da ammirare e da imitare, una sorta di modello per una crescita e per un'evasione. Come dargli torto? Nino è l'ultima ruota del carro familiare; dorme con la nonna, le cui guance sono gomitoli di rughe; la guarda (obbligato a recitare con lei spossanti orazioni) e indoviniamo che si domanda: «È più vecchia di questi muri? È più vecchia della luna che batte all'uscio?». Quanto a Michele, ha un segreto legame d'amore con Giulia Ricadi, sorella del podestà (è il 1942); Nino gli fa volentieri da paggio. Ma Giulia si è promessa ufficialmente a Natale Aprici, un guappo arricchitosi monopolizzando gli ingaggi dei braccianti, e vorrebbe congedare Michele. Questa è la prima «ombra o luce di Veneto», come l'ho definita io, sulla Calabria. Amori nel buio, confusione di ceti, mesaillances in un villaggio calabro? Ne dubito; là, di solito, i Ricadi sono bramini e i Rende paria; né c'è bosco o grotta in cui gli amori furtivi non rimbombino come un sussurro in una grancassa; cielo e terra là ingannano e tradiscono gli amanti. E con ciò? Non sarò io a difendere la verità dai veritieri; non resisto, abbiate pazienza, a un Castellani e a un Berto di questo pregio. Che nitidezza e forza d'espressione; che finezza ed esattezza di particolari, di toni; come obbediscono, figure e sfondi, al cenno geniale che li interpreta e, insieme, li crea.
Ma torniamo alla complessa vicenda. Qualcuno ha sparato a Natale Aprici, freddandolo. Chi? Nemici egli ne aveva tanti, però gli indizi più gravi sono contro Michele. Il giovane potrebbe scagionarsi (era in braccio a Giulia, se è per questo) ma non lo fa; né la ragazza, gelosa della propria reputazione, confessa. Dunque arresto, processo e condanna. Le rivelazioni e il pianto di Nino lasciano di sordo e gelido marmo la Giustizia. La nuda sostanza della sciagura è che l'indocile Michele infastidiva e irritava i padroni. Il fu Natale Aprici lo aveva fatto anche aggredire e accoltellare, ma senza domarlo. Nino deve rassegnarsi, ecco, alla perdita dell'amico. Trascorrono lenti i mesi e la guerra preme. Stigliano padre s'aggrega alla TODT e morirà in Germania. La madre e la sorella ormai signorinetta, Miliella, sfacchinano ai lavatoi pubblici. A dare un'occhiata benevola, una vaga protezione agli Stigliano, adesso non c'è che l'appuntato dei carabinieri Fimiani. Che personaggio. Dire che gli è venuto, a Castellani, di gran lunga più singolare più vivo di Michele e di Nino, è dir poco. Questo Fimiani brulica di mocciosi e di guai come ogni becero locale; è, nella sua logora uniforme, dei loro: un infimo bracciante della Legge, con sulla nuca l'invisibile giogo che opprime, in quelle campagne, tutto e tutti. Quante ne direi, su Fimiani, se gli avvenimenti stipati nel film non urgessero. Ecco il 25 luglio del '43, i simboli divelti, i saccheggi degli «ammassi», i ceffoni e i calci all'ex-podestà, il ritorno di Michele. È fuggito dalla prigione, chiede ospitalità per la notte e un fucile per vendicarsi. Ma all'alba Michele è svanito e l'arma sta dov'era. Chi ha fatto il miracolo, in quelle poche ore di silenzio e di oscurità? Miliella, che si è innamorata del giovane... ma sì: lei, con atti e con parole ignoti, lo ha prodigiosamente calmato. Berto, dimmi tu. È naturale che della nascita di un siffatto amore, destinato a produrre il terribile epilogo del film, lo spettatore non veda e non oda nulla? E che Nino (questa è la seconda «ombra o luce di Veneto sulla Calabria»), informato da Miliella, trabocchi egualmente di affetto per il randagio Michele?
Avanti. Irrompono finalmente gli alleati; rimpatriano dalla Germania i razziati e i prigionieri: fra i quali un certo Pataro, che subito dopo Fimiani (e benché rappresenti la terza «ombra o luce di Veneto sulla Calabria) è una figura eccellente, di quelle che graffiano lo schermo. Bellissimo uomo, una faccia di sultano, aveva lasciato grappoli di figli a due ragazze, due, le quali hanno tante singole speranze matrimoniali quante ne ho io che mi facciano senatore a vita: ma esse non gli sono, per questo, meno affezionate devote. Eh, Berto? E dove le aveva prese, l'ottimo Pataro, quelle femmine a tal segno libere e incustodite? In un orfanotrofio svedese? Ma Pataro mi divertì e m'interessò, dunque sia Pataro, amen. Egli ha un fervido e puerile concetto delle quattro libertà promesse dagli americani; s'appropria un lembo di terra e la coltiva. È la scintilla che farà divampare l'incendio. Michele, tornato in divisa americana (questo opinabile arruolamento gli ha fruttato non so che amnistia), organizza l'occupazione in massa dei negletti fondi. I campieri del barone Tomea accolgono a fucilate gli invasori; è ucciso l'ineguagliabile Pataro, eccolo riverso e immobile sull'erba, gli incantevoli balletti gli fremono ancora sul tumido labbro come farfalle nere. Addio. L'impresa fallisce; Michele è di nuovo arrestato ma di nuovo scappa; Fimiani potrebbe agguantarlo e non lo fa. Straziato dall'odio sociale, il Rende brucia messi e fienili; è al bando, è perduto, non gli resta che Miliella... una domenica la ragazza si veste di bianco e dice a Nino: «Raggiungo Michele». È la quarta «ombra o luce di Veneto sulla Calabria», forse la più grossa. Un effettivo Nino, amico o non amico, avrebbe afferrato Miliella e, con un fuscello o con un ciottolo, con l'alito sto per dire, l'avrebbe fatta secca. Pazienza. Miliella cadrà, uccisa per sbaglio da un traditore; e il brigante insanirà del tutto. Che squassante finale. Uno dopo l'altro i nemici di Michele sono abbattuti; e soltanto allora egli, sentendo olezzo e gusto di Miliella nell'ultimo sorso di aria che beve, si offre al mitra di Fimiani.
Spossante e uncinante film. Gli giovano le confermatissime qualità della regia, che ha ottenuto dagli uomini e dalle cose, in ogni inquadratura, il meglio del meglio; per contro gli nuoce, limitando spesso l’indagine e l'approfondimento, l'eccesso di materia. È deludente che le due passioni di Michele, negli argini delle quali si gonfia progressivamente la sua rovina (Miliella e Giulia, dico), restino enunziate, riferite, due acquisitissimi prototipi femminili senza il minimo connotato originale. Scene da applaudirsi: il dialogo di Nino con gli echi e gli occhi del pozzo; il muro degli ingaggi in piazza, sotto il fatidico «Noi tireremo dritto» mussoliniano, quei cenci e quella fame al sole, che mi ricordarono certe dolorose pagine di Alvaro; il catechismo agevolato dal caffelatte gratuito, quei «Ci ha creati Iddio» pronunziati eccezionalmente a bocca piena, quella fede simultaneamente infusa e premiata; i veli di nebbia nella selva, a un palmo dal suolo, fumi di perplesso e torpido incenso; la gioia di Pataro quando urla «Sei terra mia!» e si frantuma sul capo una zolla enorme; la frana di contadini sul feudo; gli uggiolii delle lamentatrici intorno all'esanime Pataro; il canto dei «fermati» nello stanzone, quell'ambascia che sfocia in melopea; l'intera sequenza conclusiva. Eppure... eppure... Lo dissi, rammenterete, un'altra volta. C'è nel Brigante un che di tardivo. Nel '51 questo film ci avrebbe scosso molto di più, avrebbe suscitato in ogni categoria di persone l'ira e la pietà che cerca nelle platee. Non che le antiche piaghe del Mezzogiorno siano guarite. Ma incombono altre angosce, altre paure e ansie. L'agricoltura languisce, diciamolo, anche nella preziosa valle padana. La gente ammazza per cause cento volte più futili dell'onore e della vendetta, ammazza per la semplice voglia di ammazzare. Atroci minacce s'incrociano da continente a continente. Danziamo sull'orlo di un immenso braciere. La natura stessa, colmandoci di invertiti maschi e femmine, di venditori delle proprie mogli e figlie, di ipocriti e di ladri, è come impazzita. Il cinema, oggi, o deve essere invenzione, sogno, pura favola, o, se tende al reale, non ha più nulla da chiedere ai Rende e ai Giuliano. Rifletta su ciò, Castellani, è importante.