Piazza San Francesco a Scandale in un disegno del pittore Nicola Santoro |
SULLA VALORIZZAZIONE DEL CENTRO STORICO E SULLA
FUNZIONE DELLA PIAZZA
I paesi che hanno perso l'uso e l'abitudine di
frequentare la piazza storica, centro urbano primario della tradizione e della
vita di ogni borgo, a vantaggio di altri luoghi o non-luoghi, sono paesi
destinati alla morte sociale. Certo, una vita economica non è messa in crisi
dal ritrovarsi a giocare a briscola al bar degli anziani o in qualche altro bar
del paese. Non ne va della stessa esistenza materiale del borgo. E' messa in
crisi, però, qualcosa di più importante che, del resto, fa degna l'esistenza
tranquilla di un piccolo paese di collina, di mare o di montagna. L'inurbamento
selvaggio degli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale ha contribuito,
nel migliore dei casi, allo svuotamento dei centri storici, delle sue viuzze
popolate da artigiani, contadini e dalla gioventù di ogni età, a vantaggio di
nuovi spazi, più ampi e flessibili, dove costruire enormi casermoni spesso mai
terminati. Così, scopro che a Scandale, il mio paesino, Via Roma, una delle vie
che si allacciano alla Chiesa Madre e la collegano a Piazza San Francesco, oggi
abitata da pochi cittadini, era un tempo popolata e frequentata da una
moltitudine di persone che di sera ne facevano il ritrovo cittadino, il luogo
del passo e spasso, mancando il paese della parte superiore costruita a partire
dalla seconda metà del '900 in poi.
Il centro storico, in ragione delle più elementari
esigenze della civiltà moderna, così come ogni altro centro storico, ha subito
uno spopolamento drastico, cosicché basta farsi un giro alla sera per contare
la poca gente che vi passeggia intendendolo come luogo di transito e le molte
macchine che vi scendono per poi risalire. La piazza, da luogo di scambio, ma
soprattutto di segni e simboli, diventa luogo di passaggio temporaneo. Sarebbe
invero il luogo degli incontri, delle chiacchiere tra vecchi e giovani, lo
spazio vivo in cui gli uomini dei quartieri si ritrovano per la quotidiana
passeggiata interrotta da una bevanda sorseggiata all'ombra di un albero. Si va
al caffè, si annuisce, ci si informa e si sfilano notizie. È tutta una serie di
passaggi informali reiterati che tesse la vita sociale dei borghi. Come scrive
Maurice Aymard, "non si entra al caffè per bere, ma per rivestire il
proprio ruolo in una società di uomini". Si va in piazza, dunque, per
celebrare il proprio rito di esistenza quotidiana. Si parla con gli altri, li
si vede stazionare, li si conosce, si stringono mani, si fanno battute, si discute
della vita politica e di ogni altro genere di curiosità e amenità, in quello
che diviene e che è indirettamente riconosciuto come il parlatorio collettivo.
La piazza storica, con le sue chiese ed i suoi palazzi, è il luogo di massima
familiarità cittadina, la madre arcana di ogni borgo: lì, in genere, nascono i
paesi, lì è la storia, la vita, l'utero di ogni assembramento urbano
storicizzato. Non c'è vita sociale senza la piazza. Non c'è dialogo né
crescita.
Ma nel mio paese la piazza principale, quella che
accoglie il Palazzo dei Baroni Drammis e la chiesetta di Maria SS. Addolorata,
è morta, così come morto è il centro storico, sempre più deserto e spopolato.
Muoiono gli anziani, si spengono le case. Nessuno o pochi vi si trasferiscono
per ripopolarlo. Non c'è un bar per prendersi un caffè, non c'è un tavolino per
sedersi in piazza (poco sopra Piazza De Cardona, antistante la chiesa madre, si
offrirebbe bene alla causa), non si passeggia e non vi si staziona. Una decina
di anni fa mi rallegravo nel vedere un folto gruppo di anziani che scacciavano
la noia pomeridiana sul sagrato della chiesa dell'Addolorata. Di quel gruppo,
ne sono rimasti in vita pochi, ormai "spaesati" e sottratti anch'essi
all'idea familiare del luogo di casa. E così la piazza è sacrificata all'altare
del grande Moloch rappresentato dal Corso Nazionale, un lungo marciapiede
(questo, in ogni caso, resta), che accompagna in parallelo la Via Nazionale, la
strada provinciale che porta a Crotone, sui cui bordi, nella seconda metà del secolo
scorso, è sorto il nuovo paese. Si chiudono attività per aprirle sulla Via
Nazionale, si chiudono case per aprirle sulla Via Nazionale, si spostano eventi
sulla Via Nazionale. Il grande sacrifico è compiuto. Si uccide un paese per
farlo rinascere sulla Via Nazionale.
Approfittando della sindacatura di mio padre, mi
feci abbagliare dall'idea, piccola, ma che riscosse una non sottovalutabile
risposta, di organizzare, in piazza, una Rassegna del Teatro Dialettale,
giunta, l'anno passato, alla terza edizione ed estesasi alla partecipazione di
gruppi provenienti da tutta la Calabria. L'idea nasceva con l'obiettivo di
riflettere sulle radici del popolo calabrese, perseguitato da un connaturato
complesso di inferiorità che lo porta a misconoscere la propria storia, la
propria cultura e ad abbandonarsi ad uno stato di perenne rassegnamento dinanzi
alle sfide dei tempi. L'emigrazione come medicina per le sue piaghe, lo
spopolamento come conseguenza, la morte sociale come risultato. Reagire e
sfruttare le ricchezze della nostra terra, a partire dalla scoperta del mosaico
di dialetti e culture locali di cui la Calabria è piena: questa era l'idea di
fondo. Ma, insieme a ciò, riscoprire il valore affettivo con la piazza. Le
serate si svolsero, infatti, nel centro storico. Non era un modo per
ripopolarlo, era un modo per apprezzare la bellezza e la suggestione tipica di
quei borghi a sussistenza agricola, nati senza troppi obiettivi e pretese. Le
serate riscossero notevole successo, con una partecipazione collettiva che
contava, in alcune serate, finanche le 250 persone.
Lo dico senza nessuna polemica verso gli attuali
amministratori: si pensi a rivalutare la piazza, a renderlo un luogo
frequentato, ad abituare i cittadini a farne un luogo vivo. Lo si faccia con la
consapevolezza che una serata nel centro storico riuscirà più di una serata in
uno spazio indefinito come Piazza Condoleo, luogo anch'esso di transito,
giacché distratto dalla passeggiata sul Corso. Si abitui la gente a frequentare
il centro storico. La si porti lì attirandola con eventi di richiamo non solo
locale. E, soprattutto, si pensi a qualche evento di maggiore interesse
culturale, perché questo paese ne ha bisogno.
Articolo di Ippolito Emanuele Pingitore del 18
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