domenica 6 novembre 2016

Sergio Trasatti - Il Brigante

Scandale 1960. A Piazza San Francesco si gira Il Brigante -  Foto di un giornale dell'epoca

IL BRIGANTE

Il film è evidentemente politico, ma non politicizzato. Racconta cose che verranno fuori col tempo. Anticipa quel che succederà più tardi, quella opposizione a "muro di gomma" contro riforme che prima o poi dovranno esser fatte. Gli anni che vanno dalla fine del 1944 al 1950 sono stati straordinari per un'Italia che si è davvero ricostruita dalle fondamenta dopo il tormento della guerra subita e perduta. È stato un tempo, ricorda Castellani, di grande comunicazione tra la gente, di grande carità nei rapporti umani a partire dal momento dell'invasione tedesca. Sono stati tempi in cui per superare un'angoscia o una paura bastava bussare a una porta qualsiasi. È stato il tempo del sentirsi uniti per fronteggiare qualcosa che incombeva dall'esterno. A ciò si aggiunga la propaganda alleata che faceva leva sulla libertà, sul mondo nuovo, sull'utopia di ricominciare la storia da zero. Ideali che negli americani erano forse abbastanza sinceri, in altri molto meno. In realtà, si riteneva veramente che in uno o due lustri sarebbe stato possibile rifare il mondo. In questo clima nacque Due soldi di speranza. Poi, a poco a poco, ci si accorge che è tutta un'illusione. Nessun Paese, nessuna società, forse, può cambiare in dieci anni. La società non si cambia mutando le leggi, ma cambiando gli uomini; e per cambiare gli uomini, per dirozzarli, per istruirli, per migliorarli ci vogliono intere generazioni. È questa la delusione che Castellani intende esprimere con Il brigante. Il film è una favola, in cui tutto resta uguale malgrado gli sforzi degli uomini. È la storia in cui un movimento – giusto o ingiusto, ma importante – come l'occupazione delle terre finisce davanti alla resistenza passiva. La chiave del film è nella sua parte più suggestiva: vediamo i contadini che hanno occupato le terre e si sentono dire: «Restateci, ma chi esce non rientra», e non possono far niente. Ecco perché il protagonista impazzisce, e si perde in una ribellione che in sostanza non serve a nulla.
Il film, si diceva, subisce diversi tagli. È tagliato anche nel finale, perché la scena sembra troppo violenta, di un'atrocità spaventosa per tempi in cui si è ancora soliti usare la mano leggera. Quel che della storia resta, comunque, è abbastanza eloquente circa le intenzioni dell'autore. V'è anzitutto la Calabria, visitata e studiata meticolosamente, e c'è la partecipazione profonda di un regista del nord al dramma delle genti del sud. Le riprese durano a lungo, quasi un anno. Castellani si appoggia alla splendida fotografia di un esordiente, Armando Nannuzzi, che ha già lavorato con lui in ruoli più umili: come ragazzo di bottega addetto al trasporto delle pellicola prima e come addetto ai fuochi e come operatore di macchina poi.
La scelta degli interpreti comporta qualche problema, tanto che alla resa dei conti Castellani non è completamente soddisfatto del protagonista (aveva pensato in un primo tempo a Don Murray oppure a Maurizio Arena), mentre è molto contento di colui che interpreta la parte dell'uomo con due mogli e degli altri contadini assoldati per l'occasione, non senza difficoltà, date le abitudini locali (succede perfino che un fotografo, mandato in giro per collezionare volti tra i quali scegliere gli interpreti, è denunciato ai carabinieri con l'accusa di voler fare una "magarìa"). Per quanto riguarda il ragazzo-narratore, fortuna vuole che le sequenze del film siano girate secondo l'ordine cronologico, perché egli cresce rapidamente e visibilmente sotto gli occhi del regista. La parte della ragazza è affidata a Serena Vergano, figlia di uno scrittore girovago e di una pittrice, ex studentessa del liceo Parini, esponente della Milano-bene, che fa un po' di fatica a inserirsi nel personaggio di una giovane della Calabria, una terra che non ha mai visto. (...)
La critica non lesina complimenti. Guglielmo Biraghi (“Il Messaggero”, 31 agosto 1961) parla di un «nobilissimo film con molti numeri per piacere al pubblico: vigore e lirismo, intelligenza e anima». Ma nella seconda parte « il dramma si gonfia e i personaggi da umani tendono a farsi eroici... e quella che all'inizio, senza particolari pretese, era una grande pittura d'ambiente minuziosamente e gustosamente tracciata, allorché vuole coscientemente essere tale rischia di confondersi nel fumo di moralità sociali alquanto incerte ». Gian Luigi Rondi (“Il tempo”, 31 agosto 1961) parla dal canto suo di «personaggi approssimativi e confusi», di «errori di gusto e di stile» e di pleonasmi, ma apprezza «quelle pagine corali in cui il regista ha profuso tensione drammatica e rigore realistico» e in generale «uno stile in cui il gusto dell'immagine preziosa sapientemente si fonde al rispetto per il dato reale e ad un ritmo che riesce quasi sempre a mantenersi agile e sciolto». Forse ha nuociuto a Castellani l'affermazione fatta in una conferenza stampa in Laguna di non aver voluto fare opera di critica storica né politica, il che l'ha fatto ritrovare a corto di difensori d'ufficio.
La versione del film che arriva nelle sale è più breve di un'ora rispetto a quella veneziana, già ridotta rispetto all'originale. È così compromessa in maniera decisiva - annoterà Gian Piero Brunetta nella Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni Ottanta (Roma, Editori Riuniti, 1982, p. 722) - «l'intenzione generale di costruzione di un grande affresco epico e corale di vita nella Calabria contadina negli anni tra fascismo e dopoguerra». Ma aggiungerà che «Castellani subisce la sorte di altri registi della sua generazione perché pretende di continuare a difendere un proprio modello di cinema, senza accettare di essere rimesso in gioco dalla contemporanea dinamica catastrofica dei significanti e dei significati».

Sergio Trasatti, Renato Castellani, Il Castoro cinema,1-2/1984


Scandale 1960 - Eriprando Visconti, aiuto regista di Castellani