Don Ciccio Rota (se non sbaglio) con il Prof. Ezio Scaramuzzino in Via Puccini a Scandale in una foto dell'Archivio Aprigliano |
La
vendemmia del '52
Quando ero bambino, tre - quattro giorni all’anno,
nel mese di settembre, erano dedicati alla vendemmia. Nei giorni precedenti,
l’arrivo di questo evento era preannunziato da un fervore insolito a casa mia,
dove tutti erano indaffarati a preparare qualcosa.
Io mi limitavo ad osservare, pregustando in
anticipo il sapore ed il frastuono allegro di quella che si preannunziava come
una festa. Il colmo della felicità per me consisteva poi nel fare il tragitto
tra il paese e la campagna sul dorso di qualche animale, unico mezzo di
trasporto agricolo all’epoca. Ma ancora più felice mi sentivo quando, per non
so quale motivo, venivo infilato in una delle due sporte che gli asini ed i
muli, in lunga fila, trasportavano a destinazione.
Era un’operazione non facile questa. Bisognava
trovare due bambini che avessero più o meno lo stesso peso, per equilibrare il
carico ed evitare che le sporte si inclinassero pericolosamente. Ma, ad una
certa ora, finalmente, si partiva. Si percorreva una parte del paese, che io
guardavo compiaciuto ed orgoglioso, dall’alto del mio punto di osservazione,
con lo stesso compiacimento e lo stesso orgoglio con cui qualcuno, al mondo
d’oggi, esibirebbe in pubblico la sua Ferrari.
Poi si imboccavano sentieri di campagna e strade
sterrate, che a volte si inerpicavano paurosamente e diventavano pericolose in
caso di pioggia, perché gli animali potevano scivolare. Mio padre e mio fratello
Nando, in questo caso, decidevano una deviazione attraverso una strada privata,
più comoda, che attraversava un aranceto
in zona Broncalà, suscitando spesso le proteste dei proprietari, i Rota, che
non tolleravano questi percorsi abusivi. […]
Superai gli altri bambini ed arrivai per primo alle
vigne. Alcuni erano già al lavoro, un lavoro metodico e per lo più ben
distribuito: le donne staccavano l’uva dai tralci e riempivano i cesti, gli
uomini ed i maschietti trasportavano i panieri fino alle sporte, i bambini
giocavamo a nascondiglio dietro i
pampini delle viti ed i cespugli ed ogni tanto, a seconda dell’età e della
vigoria fisica, trasportavamo qualche piccolo paniere pieno d’uva.
Dopo qualche ora di lavoro, verso le 11, secondo le
usanze dei contadini, si pensava già al pranzo. Le donne provvedevano a
stendere delle tovaglie sull’erba, all’ombra di un ulivo centenario, e tutti,
seduti o sdraiati per terra davano
inizio al rito. Giusto definirlo così, perché il rito era immutato da sempre e
si svolgeva secondo un cerimoniale che sembrava sacrilego modificare. Il vino
era abbondante e generoso; il primo era quasi sempre la famosa, mitica pasta al
forno; il secondo era sempre a base di salsicce e carne di maiale; il contorno a base di peperoni e patate. Bere acqua era
quasi vietato per tutti, comprese le donne, ed appena tollerato per i bambini,
sicché dopo un po’ molti apparivano in preda ad una certa euforia ed inclini
allo scherzo ed alle battute. Qualche volta i freni si allentavano e gli uomini
diventavano arditi nei confronti delle donne, che non avevano paura di
rispondere a tono. Ma tutto finiva lì, in un’atmosfera di sana allegria che
dava un senso ed un tono alla nostra voglia di vivere e di stare in armonia con
il mondo circostante. E quel mondo, in quel momento, era il nostro, eravamo
noi, riuniti sotto quell’ulivo secolare e felici di stare assieme e di volerci
bene.
Piccola parte di un lungo articolo di Ezio
Scaramuzzino pubblicato sul suo Blog venerdì 28 settembre 2018