mercoledì 3 novembre 2010

Articolo del Prof. Luigi Corsaro, figlio del Maestro di musica Nicola Corsaro

Banda musicale di Scandale in una foto degli anni Quaranta. Al centro, l’uomo senza cappello è il Maestro Salvatore Corsaro (Archivio Aprigliano).



Riporto un articolo del Prof. Luigi Corsaro, figlio del Maestro di musica Nicola Corsaro e nipote di Salvatore che, come gli scandalesi sanno, hanno diretto la Banda musicale di Scandale prima e dopo la Guerra. Il Professore vive a Perugia, dove ha insegnato presso la Facoltà di Giurisprudenza di quell’Università. Ora è in pensione, dopo 44 anni di attività professionale.


Solofra, 30 dicembre 2004


Non è usuale che un figlio illustri, spieghi la figura del proprio padre. Tuttavia la situazione in cui mi trovo oggi è tale che non posso farne a meno. Questo è dovuto all’onore che la città di Solofra oggi fa ad un suo figlio, che molto tempo fa la lasciò per necessità, non per disaffezione, così come è accaduto a molti di noi rispetto ai nostri paesi di origine.

Su mio padre tutti possono leggere in Internet alcuni dati biografici. Quei dati, che io ho comunicato quando ho avuto i primi contatti con la prof.ssa De Maio, non pensavo che andassero a finire al pubblico. Sono dati nudi e asettici, che dicono sinteticamente della vita di un uomo, della sua famiglia e della sua fine. Dicono sinteticamente di quello che la persona ha fatto. Tuttavia, non ne spiegano l’animo. Io qui tenterò invece di chiarire questo aspetto.

La figura di mio padre si spiega solo in collegamento con l’idea di banda musicale, di complesso bandistico di una città, di banda come espressione della comunità cittadina. Forse è un’idea di altri tempi, ma è così.

Per lui la banda musicale era un qualcosa in cui si realizzavano le energie dei giovani della città, perché i suoi componenti erano del luogo, perché la banda serviva innanzitutto alla città per le sue feste e per ogni lieta o triste ricorrenza. Era la musica il fatto costante che accompagnava i fatti importanti della vita cittadina.

E poi, la banda era il momento in cui si concretizzava l’attività di insegnamento del maestro, perché i musicanti, i componenti della banda erano allievi suoi o del maestro precedente, erano ad ogni modo il frutto di una produzione locale.

Ebbene, questo fenomeno bandistico, del quale mio padre viveva, ha dovuto fare i conti con l’andamento dell’economia e le sue crisi. Se si segue la vita di mio padre e si presta attenzione ai suoi molteplici spostamenti dal 1930 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, si può notare immediatamente come le bande si formano e vengono meno in poco tempo. Questo perché vengono meno le occasioni di alimentazione economica del fenomeno musicale. La crisi economica impedisce l’utilizzazione della banda nei paesi vicini e vengono meno gli introiti che permettono la sopravvivenza (basti pensare al costo degli strumenti). Ed allora un maestro di banda come mio padre, che non rinuncia a fare quello per cui si sente tagliato e che fin da piccolo aveva coltivato, che fa? Insegue la possibilità di organizzare una banda musicale là dove questa è venuta meno, e si sposta prima nelle Marche e poi in Calabria, e qui cambia molte volte paese, nella speranza di poter realizzare il sogno di avere una sua banda stabile, economicamente solida, che non dipenda dal fatto contingente di eseguire un servizio bandistico in più o in meno. Questo sogno continuerà anche dopo il periodo bellico e stava quasi per realizzarsi negli anni 50.

Ma intanto la società era cambiata; il gusto della musica tradizionale cui la banda era dedita e il culto delle feste cittadine era calato o quasi spento. Le istituzioni pubbliche non erano attente a questo fenomeno, giustamente impegnate nell’opera di ricostruzione e di sviluppo di un paese danneggiato dagli eventi bellici. E così, con la fine delle bande, mio padre è costretto a stabilirsi in una città, Crotone, e lì dedicarsi all’insegnamento.

Ma questo non basta a spiegare il rapporto fra mio padre e la banda musicale. La banda eseguiva, sì, pezzi classici, ma questi pezzi erano adattati da lui per il complesso bandistico. È quello che tecnicamente si chiama trascrizione. Ebbene mio padre trascriveva, adattava, sunteggiava opere liriche e pezzi classici per la sua banda. Allevava, istruiva gli allievi. Scriveva parti e partiture per gli esecutori. Adattava e componeva musica religiosa per il suo complesso. Ma soprattutto scriveva marce per la sua banda; marce originali, di cui alcune premiate. La banda era alla fine una sua creatura, un suo prodotto, era qualcosa di suo, gli apparteneva.

Dico queste cose non da figlio, ma da osservatore. L’ho visto molte volte da piccolo nelle prove, in esecuzione di servizi pubblici, e poi l’ho rivisto a 24 anni nell’anno 1964, quando dopo otto anni dall’ultimo concerto, dirigeva la banda di Bolzano, in un concerto a Bressanone. Quando era sul podio era come rinato, era nel suo ambiente naturale, sembrava avesse trent’anni; invece ne aveva ben sessantadue.

Questa immedesimazione fra mio padre e la banda era la conseguenza del fatto che egli era un compositore. E questo è un altro capitolo non molto noto che qui si apre, per merito di questa città che gli diede i natali e dalla quale le vicissitudini economiche lo hanno allontanato (così come è successo a molti di noi).

Questa della composizione è stata la sua passione. Anzi si può dire che essa lo accompagnò costantemente per tutto il percorso della sua esistenza. Da un elenco da lui stesso fatto nel 1963, e non comprensivo delle composizioni successive, risultano alcune operette per il teatro, oltre 50 fra marce, marce sinfoniche, fantasie, scherzi, marce funebri e religiose, 40 composizioni per piccoli complessi di strumenti a fiato, più di 20 composizioni per pianoforte, più di 20 composizioni per canto e pianoforte, più di 10 composizioni per canto ed organo, 6 composizioni per orchestra.

Non sta a me giudicare queste composizioni, che io ho donato a questa Città e che consegno simbolicamente al signor Sindaco mediante un elenco da me redatto. Io mi dedico di tanto in tanto a suonarne, e malamente, qualcuna per pianoforte. Posso dire solo una cosa: che esse, pur accompagnando costantemente la vita non facile del suo autore, sono talvolta, sì, melanconiche, ma mai riflettono tutte le difficoltà, le illusioni, i fatti negativi che mio padre ha dovuto affrontare nella vita nel perseguire il suo sogno musicale, al quale si era dedicato sulle orme di suo padre Michele, mio nonno. E questo, forse, ha una spiegazione. Nell’inviare una sua composizione ad un concorso in forma anonima, mio padre contrassegnò l’opera con il seguente motto: “Divina è quell’arte che uccide il dolor”. Ebbene, questa forse è la vera ragione del suo comporre e della continuità della sua opera: uccidere il dolore delle cose tristi che la vita gli forniva incessantemente. Ma non in una meditazione fine a sé stessa, ma in un lavoro, in un’opera, in un qualcosa di tangibile per sé ed il proprio futuro. Ed in questo sta anche il suo insegnamento.