Particolare del monumento a Giuseppe Garibaldi a Roma |
Come e perché l’Inghilterra decise la
fine delle Due Sicilie
di Angelo Forgione per napoli.com
La
spedizione garibaldina, per la storiografia ufficiale, ha il sapore di
un’avventura epica quasi cinematografica, compiuta da soli mille uomini che
salpano all’improvviso da nord e sbarcano a sud, combattono valorosamente e
vincono più volte contro un esercito molto più numeroso, poi risalgono la
penisola fino a giungere a Napoli, Capitale di un regno liberato da una
tirannide oppressiva, e poi più su per dare agli italiani la nazione unita.
Troppo
hollywoodiano per essere vero, e difatti non lo è. La spedizione non fu per
niente improvvisa e spontanea ma ben architettata, studiata a tavolino nei
minimi dettagli e pianificata dalle massonerie internazionali, quella
britannica in testa, che sorressero il tutto con intrighi politici, contributi
militari e cospicui finanziamenti coi quali furono comprati diversi uomini
chiave dell’esercito borbonico al fine di spianare la strada a Garibaldi che
agli inglesi non mancherà mai di dichiarare la sua gratitudine e amicizia.
I
giornali dell’epoca, ma soprattutto gli archivi di Londra, Vienna, Roma, Torino
e Milano e, naturalmente, Napoli forniscono documentazione utile a ricostruire
il vero scenario di congiura internazionale che spazzò via il Regno delle Due
Sicilie non certo per mano di mille prodi alla ventura animati da un ideale
unitario.
Il
Regno britannico, con la sua politica imperiale espansionistica che tanti danni
ha fatto nel mondo e di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze (vedi
conflitto israelo-palestinese), ebbe più di una ragione per promuovere la fine
di quello napoletano e liberarsi di un soggetto politico-economico divenuto
scomodo concorrente.
Innanzitutto
furono i sempre più idilliaci rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e lo
Stato Pontificio a generare l’astio di Londra. La massoneria inglese aveva come
priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche e la cattolica
Napoli era ormai invisa alla protestante e massonica Londra che mirava alla
cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano principale ostacolo a
questo obiettivo che coincideva con quello dei Savoia, anch’essi massoni, di
impossessarsi dei fruttuosi possedimenti della Chiesa per risollevare le
proprie casse. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo
ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni
erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Cavour.
In
questo conflittuale scenario di potentati, la nazione Napoletana percorreva di
suo una crescita esponenziale ed era già la terza potenza europea per sviluppo
industriale come designato all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856.
Un risultato frutto anche della politica di Ferdinando II che portò avanti una
politica di sviluppo autonomo atto a spezzare le catene delle dipendenze
straniere.
La
flotta navale delle Due Sicilie costituiva poi un pericolo per la grande
potenza navale inglese anche e soprattutto in funzione dell’apertura dei
traffici con l’oriente nel Canale di Suez i cui scavi cominciarono proprio nel
1859, alla vigilia dell’avventura garibaldina.
L’integrazione
del sistema marittimo con quello ferroviario, con la costruzione delle ferrovie
nel meridione con cui le merci potessero viaggiare anche su ferro, insieme alla
posizione d’assoluto vantaggio del Regno delle Due Sicilie nel Mediterraneo
rispetto alla più lontana Gran Bretagna, fu motivo di timore per Londra che già
non aveva tollerato gli accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’Impero Russo
grazie ai quali la flotta sovietica aveva navigato serenamente nel
Mediterraneo, avendo come basi d’appoggio proprio i porti delle Due Sicilie.
Proprio
il controllo del Mediterraneo era una priorità per la “perfida Albione” che si
era impossessata di Gibilterra e poi di Malta, e mirava ad avere il controllo
della stessa Sicilia quale punto più strategico per gli accadimenti nel
mediterraneo e in oriente. L’isola costituiva la sicurezza per l’indipendenza Napoletana
e in mano agli stranieri ne avrebbe decretata certamente la fine, come fece
notare Giovanni Aceto nel suo scritto “De
la Sicilie et de ses rapports avec l’Angleterre”.
La
presenza inglese in Sicilia era già ingombrante e imponeva coi cannoni a Napoli
il remunerativo monopolio dello zolfo di cui l’isola era ricca per i quattro
quinti della produzione mondiale; con lo zolfo, all’epoca, si produceva di
tutto ed era una sorta di petrolio per quel mondo. E come per il petrolio oggi
nei paesi mediorientali, così allora la Sicilia destava il grande interesse dei
governi imperialisti.
I
Borbone, in questo scenario, ebbero la colpa di non fare tesoro della lezione
della Rivoluzione Francese, di quella Napoletana del 1799 e di quelle a
seguire, di considerarsi insovvertibili in Italia e di non capire che il
pericolo non era da individuare nella penisola ma più in la, che nemico era
alle porte, anzi, proprio in casa. Il Regno di Napoli e quello d’Inghilterra
erano infatti alleati solo mezzo secolo prima, ma in condizione di sfruttamento
a favore del secondo per via dei considerevoli vantaggi commerciali che ne
traeva in territorio duosiciliano. Fu l’opera di affrancamento e di progressiva
riduzione di tali vantaggi da parte di Ferdinando II a rompere l’equilibrio e a
suscitare le cospirazioni della Gran Bretagna che si rivelò così un vero e
proprio cavallo di Troia. Per questo fu più comodo per gli inglesi “cambiare”
l’amicizia ormai inimicizia con lo stato borbonico con un nuovo stato savoiardo
alleato.
Questi
furono i motivi principali che portarono l’Inghilterra a stravolgere gli
equilibri della penisola italiana, propagandando idee sul nazionalismo dei
popoli e denigrando i governi di Russia, Due Sicilie e Austria. La mente
britannica armò il braccio piemontese per il quale il problema urgente era
quello di evitare la bancarotta di stampo bellico accettando l’opportunità
offertagli di invadere le Due Sicilie e portarne a casa il tesoro.
Un
titolo sul “Times” dell’epoca, pubblicato già prima della morte di Ferdinando
II, è foriero di ciò che sta per accadere e spiega l’interesse imperialistico
inglese nelle vicende italiane. “Austria e Francia hanno un piede in Italia, e
l’Inghilterra vuole entrarvi essa pure”.
Lo
sbarco a Marsala e l’invasione del Regno delle Due Sicilie sono a tutti gli
effetti un “gravissimo atto di pirateria internazionale”, compiuto ignorando
tutte le norme di Diritto Internazionale, prima fra tutte quella che garantisce
il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Il fatto che nessuna nazione
straniera abbia mosso un dito mentre avveniva e si sviluppava fa capire quale
sia stata la predeterminazione di un atto così grave.
Garibaldi
è un burattino in mano a Vittorio Emanuele II Cavour, l’unico che può compiere
questa invasione senza dichiarazione non essendo né un sovrano né un politico.
E viene manovrato a dovere dal conte piemontese, dal Re di Sardegna e dai
cospiratori inglesi, fin quando non diviene scomodo e arriva il momento di
costringerlo a farsi da parte.
Di
soldi, nel 1860, ne circolano davvero parecchi per l’operazione. Si parla di
circa tre milioni di franchi francesi solo in Inghilterra, denaro investito per
comprare il tradimento di chi serve allo scopo, ma anche armi, munizioni e
navi. A Londra nasce il “Garibaldi Italian Fund Committee”, un fondo utile ad
ingaggiare i mercenari che devono formare la “Legione Britannica”, uomini
feroci che aiuteranno il Generale italiano nei combattimenti che verranno.
Garibaldi
diviene un eroe in terra d’Albione con una popolarità alle stelle. Nascono i
“Garibaldi’s gadgets”: ritratti, composizioni musicali, spille, profumi,
cioccolatini, caramelle e biscotti, tutto utile a reperire fondi utili
all’impresa in Italia.
In
realtà, alla vigilia della spedizione dei mille, tutti sanno cosa sta per
accadere, tranne la Corte e il Governo di Napoli ai quali “stranamente” non
giungono mai quei telegrammi e quelle segnalazioni che vengono inviate dalle
ambasciate internazionali. In Sicilia invece, ogni unità navale ha già ricevuto
le coordinate di posizionamento nelle acque duosiciliane.
La
traversata parte da Quarto il 5 Maggio 1860 a bordo della “Lombardo” e della
“Piemonte”, due navi ufficialmente rubate alla società Rubattino ma in realtà
fornite favorevolmente dall’interessato armatore genovese, amico di Cavour.
Garibaldi non sa neanche quanta gente ha a bordo, non è una priorità far
numero; se ne contano 1.089 e il Generale resta stupito per il numero oltre le
sue stime. Sono persone col pedigree dei malavitosi e ne farà una
raccapricciante descrizione lo stesso Garibaldi. Provengono da Milano, Brescia,
Pavia, Venezia e più corposamente da Bergamo, perciò poi detta “città dei
mille”. Ci sono anche alcuni napoletani, calabresi e siciliani, 89 per la
precisione, proprio quelli sfrattati dalla toponomastica delle città italiane.
La
rotta non è casuale ma già stabilita, come il luogo dello sbarco. Marsala non è
la terra scorta all’orizzonte ma il luogo designato perché li c’è una
vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura.
Il
10 Maggio, alla vigilia dello sbarco, l’ammiragliato inglese a Londra dà
l’ordine ai piroscafi bellici “Argus” e “Intrepid”, ancorati a Palermo, di
portarsi a Marsala; ufficialmente per proteggere i sudditi inglesi ma in realtà
con altri scopi. Ci arrivano infatti all’alba del giorno dopo e gettano
l’ancora fuori a città col preciso compito di favorire l’entrata in rada delle
navi piemontesi. Navi che arrivano alle 14 in punto, in pieno giorno, e questo
dimostra quanta sicurezza avessero i rivoltosi che altrimenti avrebbero più
verosimilmente scelto di sbarcare di notte.
L’approdo
avviene proprio dirimpetto al Consolato inglese e alle fabbriche inglesi di
vini “Ingham” e “Whoodhouse” con le spalle coperte dai piroscafi britannici
che, con l’alibi della protezione delle fabbriche, ostacolano i colpi di
granate dell’incrociatore napoletano “Stromboli”, giunto sul posto insieme al
piroscafo “Capri” e la fregata a vela “Partenope”.
Le
trattative che si intavolano fanno prendere ulteriore tempo ai garibaldini e
sortiscono l’effetto sperato: I “mille” sbarcano sul molo. Ma sono in 776
perché i veri repubblicani, dopo aver saputo che si era andati a liberare la
Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, si sono fatti sbarcare a Talamone, in
terra toscana. Contemporaneamente sbarcano dall’Intrepid dei marinai inglesi
anch’essi di rosso vestiti che si mischiano alle “camicie rosse”, in modo da
impedire ai napoletani di sparare.
Napoli
invia proteste ufficiali a Londra per la condotta dei due bastimenti inglesi ma
a poco serve. Garibaldi e i suoi sbarcano nell’indifferenza dei marsalesi e la
prima cosa che fanno è saccheggiare tutto ciò che è possibile.
Il
13 Maggio Garibaldi occupa Salemi, stavolta nell’entusiasmo perché il barone
Sant’Anna, un uomo potente del posto, si unisce a lui con una banda di
“picciotti”. Da qui si proclama “dittatore delle Due Sicilie” nel nome di
Vittorio Emanuele II, Re d’Italia”.
Il
15 Maggio è il giorno della storica battaglia di Calatafimi. I mille sono ora
almeno il doppio; vi si uniscono “picciotti” siciliani, inglesi e marmaglie
insorte, e sfidano i soldati borbonici al comando del Generale Landi. La
storiografia ufficiale racconta di questo conflitto come di un miracolo dei
garibaldini ma in realtà si tratta del risultato pilotato dallo stesso Generale
borbonico, un corrotto accusato poi di tradimento.
I
primi a far fuoco sono i “picciotti” che vengono decimati dai fucili dei
soldati Napoletani.
Il
Comandante borbonico Sforza, con i suoi circa 600 uomini, assalta i garibaldini
rischiando la sua stessa vita e mentre il Generale Nino Bixio chiede a
Garibaldi di ordinare la ritirata il Generale Landi, che già ha rifiutato rinforzi
e munizioni a Sforza scongiurando lo sterminio delle “camicie rosse”, fa
suonare le trombe in segno di ritirata. Garibaldi capisce che è il momento di
colpire i borbonici in fuga e alle spalle, compiendo così il “miracolo” di
Calatafimi. Una battaglia che avrebbe potuto chiudere sul nascere l’avanzata
garibaldina se non fosse stato per la condotta di Landi che fu accusato di
tradimento dallo stesso Re Francesco II e confinato sull’isola d’Ischia; non a
torto perché poi un anno più tardi, l’ex generale di brigata dell’esercito
borbonico e poi generale di corpo d’armata dell’esercito sabaudo in pensione,
si presenta al Banco di Napoli per incassare una polizza di 14.000 ducati d’oro
datagli dallo stesso Garibaldi ma scopre che sulla sua copia, palesemente
falsificata, ci sono tre zeri di troppo. Landi, per questa delusione, è colpito
da ictus e muore.
Garibaldi,
ringalluzzito per l’insperata vittoria di Calatafimi, s’inoltra nel cuore della
Sicilia mentre le navi inglesi, sempre più numerose, ne controllano le coste
con movimenti frenetici. In realtà la flotta inglese segue in parallelo per
mare l’avanzata delle camicie rosse su terra per garantire un’uscita di
sicurezza.
Intanto
sempre gli inglesi fanno arrivare in Sicilia corposi rinforzi, armi e danari per
i rivoltosi e preziose informazioni da parte di altri traditori vendutisi
all’invasore per fare del Sud una colonia. Le banche di Londra sono piene di
depositi di cifre pagate come prezzo per ragguagli sulla dislocazione delle
truppe borboniche e di suggerimenti dei generali corruttibili, così come di
tante altre importantissime informazioni segrete.
Garibaldi
entra a Palermo e poi arriva a Milazzo ormai rafforzato da uomini e armi
moderne e l’esito della battaglia che li si combatte, a lui favorevole, é
prevalentemente dovuto all’equipaggiamento individuale dei rivoltosi che hanno
ricevuto in dotazione persino le carabine-revolver americane “Colt” e il fucile
rigato inglese modello “Enfield ‘53”.
Quando
l’eroe dei due mondi passa sul territorio peninsulare, le navi inglesi
continuano a scortarlo dal mare e anche quando entra a Napoli da Re sulla prima
ferrovia italiana ha le spalle coperte dall’Intrepid (chi si rivede) che dal 24
Agosto, insieme ad altre navi britanniche, si muove nelle acque napoletane.
Il
6 Settembre, giorno della partenza di Francesco II e del concomitante arrivo di
Garibaldi a Napoli in treno, il legno britannico sosta vicino alla costa,
davanti al litorale di Santa Lucia, da dove può tenere sotto tiro il Palazzo
Reale. Una presenza costante e incombente, sempre minacciosa per i borbonici e
rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più
di mille”. l’Intrepid lascia Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare
definitivamente in Inghilterra dando però il cambio ad altre navi inglesi,
proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, dona agli amici inglesi un
suolo a piacere che viene designato in Via San Pasquale a Chiaia su cui viene
eretta quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per
gli inglesi di Napoli ma che i Borbone non avevano mai consentito di
realizzare. Lo stesso accadrà a Palermo nel 1872.
Qualche
mese dopo, la città di Gaeta che ospita Francesco II nella strenua difesa del
Regno è letteralmente rasa al suolo dal Generale piemontese Cialdini, pagando
non solo il suo ruolo di ultimo baluardo borbonico ma anche e soprattutto
l’essere stato nel 1848 il luogo del rifugio di Papa Pio IX, ospite dei
Borbone, in fuga da Roma in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana
ad opera di Giuseppe Mazzini, periodo in cui la città assunse la denominazione
di “Secondo Stato Pontificio”.
Scompare
così l’antico Regno di Ruggero il Normanno sopravvissuto per quasi otto secoli,
non a caso nel momento del suo massimo fulgore.
Dieci
anni dopo, nel Settembre 1870, la breccia di Porta Pia e l’annessione di Roma
al Regno d’Italia decreta la fine anche dello Stato Pontificio e del potere
temporale del Papa, portando a compimento il grande progetto delle massonerie
internazionali nato almeno quindici anni prima, volto a cancellare la grande
potenza economico-industriale del Regno delle Due Sicilie e il grande potere
cattolico dello Stato Pontificio. Il Vaticano, proprio da qui si mondanizza per
sopravvivenza e comincia ad affiancarsi alle altre supremazie mondiali che
hanno cercato di eliminarlo.
Garibaldi,
pochi anni dopo la sua impresa, è ospite a Londra dove viene accolto come un
imperatore. I suoi rapporti con l’Inghilterra continuano per decenni e si
manifestano nuovamente quando, intorno alla metà del 1870, il Generale è
impegnato nell’utopia della realizzazione di un progetto faraonico per
stravolgere l’aspetto di Roma: il corso del Tevere entro Roma completamente
colmato con un’arteria ferroviaria contornata da aree fabbricabili. Da Londra si
tessono contatti con società finanziarie per avviare il progetto ed arrivano
nella Capitale gli ingegneri Wilkinson e Fowler per i rilievi e i sondaggi. È
pronta a realizzare la remunerativa follia la società britannica Brunless &
McKerrow che non vi riuscirà mai perché il progetto viene boicottato del
Governo italiano.
L’ideologia
nazionale venera i “padri della patria” che operarono il piano internazionale,
dimenticando tutto quanto di nefasto si raccontasse di Garibaldi, un
avventuriero dal passato poco edificante. L’Italia di oggi festeggia un uomo
condannato persino a “morte ignominiosa in contumacia” nel 1834 per sentenza
del Consiglio di Guerra Divisionale di Genova perché nemico della Patria e
dello Stato, motivo per il quale fuggì latitante in Sud America dove diede
sfogo a tutta la sua natura selvaggia.
In
quanto a Cavour, al Conte interessava esclusivamente ripianare le finanze dello
Stato piemontese, non certo l’unità di un paese di cui non conosceva neanche la
lingua, così come Vittorio Emanuele II primo Re d’Italia, benché non a caso
secondo di nome nel solco di una continuazione della dinastia sabauda e non
italiana. Non a caso il 21 Febbraio 1861, nel Senato del Regno riunito a
Torino, il nuovo Re d’Italia fu proclamato da Cavour «Victor-Emmanuel II, Roi
d’Italie», non Re d’Italia.