domenica 8 marzo 2015

Quando Giacomo Casanova venne in Calabria

Giacomo Casanova
“Cosenza è una città dove una persona dabbene può divertirsi: ci sono nobili ricchi, belle donne e persone molto istruite che sono state educate a Napoli e a Roma"

GIACOMO CASANOVA
Giovanni Giacomo Casanova
Venezia 1725 – Dux (Boemia) 1798
Avventuriero e letterato

Viaggiò per tutta l’Europa, vivendo spesso di espedienti, ma godendo della stima di sovrani e intellettuali. Occultista, massone e agente segreto, fu accusato di ateismo e libertinaggio e imprigionato nei Piombi di Venezia da cui riuscì a fuggire (il tutto è narrato nel libro Storia della mia fuga, scritto in francese nel 1788). Negli ultimi anni della sua vita fu bibliotecario del conte di Waldstein a Dux in Boemia. Lì, sempre in francese, scrisse La storia della mia vita (1791-1798), conosciuta anche col titolo di Mémoires: vivace affresco della società settecentesca prerivoluzionaria.
Nel 1743 (secondo altri nel 1744), grazie all’interessamento della madre, partì per la Calabria, per raggiungere il vescovo Bernardino de Bernardis (1699-1758), designato alla diocesi di Martirano. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le condizioni di povertà del luogo, chiese e ottenne di essere trasferito.
Casanova afferma di avere mangiato in Calabria "sublimi salumi", di avere bevuto il "nettare dei cedri" di Cirella, di avere ricevuto dall’Arcivescovo di Cosenza il vino di Gerace e i mezzi per tornare a Napoli.
Di seguito un passo delle sue memorie dove fa un brutto ritratto della Calabria di quel periodo:

“Partimmo in compagnia di due preti che dovevano recarsi a Cosenza e insieme percorremmo le centocinquanta miglia che ci separavano dalla Capitale della Calabria in ventidue ore. Quindi, l’indomani stesso del mio arrivo, presi un calesse per recarmi a Martirano. Durante il viaggio contemplavo il famoso Mare Ausonium. Guardavo con meraviglia quel paese famoso per la sua fertilità, nel quale, però, nonostante la prodigalità della natura, vedevo soltanto miseria: vi mancavano, infatti, tutte quelle incantevoli cose che, per quanto superflue, contribuiscono a rendere bella la vita e gli stessi pochi abitanti in cui mi imbattevo mi facevano vergognare di appartenere al genere umano… Mi resi conto allora che i Romani non avevano torto di chiamarli bruti invece di Bruzi… Trovai il vescovo Bernardo de Bernardis intento a scrivere, seduto a una misera tavola. Era un bel frate, con la croce episcopale sul petto. Mi ricordava il padre Mancia, ma aveva un aspetto più robusto e meno riservato. M’inginocchiai davanti a lui, ma invece di benedirmi si alzò, mi sollevò e mi abbracciò stretto… Sospirò, mi parlò di dispiaceri e di miseria, e ordinò ad un domestico di mettere in tavola un terzo coperto. Oltre a quel domestico, aveva una serva di aspetto più che canonico, e un prete che, dalle poche parole che pronunziò a tavola, mi sembrò un grande ignorante. La casa vescovile era spaziosa ma mal costruita e mal tenuta. C’era tanta penuria di mobili che per farmi preparare un lettuccio, in una stanza vicina alla sua, dovette cedermi uno dei duri materassi su cui dormiva. Il pranzo, poi, era talmente misero che mi spaventò: in effetti il vescovo era molto osservante della regola del suo ordine e mangiava di magro. Per di più l’olio era cattivo. Ma, Bernardo De Bernardis, era un uomo intelligente e, quel che più conta, onesto. Mi disse, e ne fui molto meravigliato, che il suo vescovado, pur non essendo dei più poveri, gli rendeva soltanto cinquecento ducati del regno all’anno e che, per colmo di sventura, era già indebitato per seicento. Gli chiesi se aveva dei buoni libri, della gente colta da frequentare qualche persona distinta con cui passare piacevolmente un paio d’ore. Mi confidò sorridendo che in tutta la diocesi non c’era nessuno che potesse vantarsi di sapere scrivere bene e tanto meno che avesse un po’ di gusto o una qualche idea di cosa fosse la buona letteratura... Nella Chiesa Madre, il giorno dopo, il vescovo celebrò la messa pontificale e potei vedere tutto il clero, tutte le donne e tutti gli uomini che riempivano la cattedrale. Fu allora che presi la mia decisione e mi sentii fortunato di poterla prendere. Quelle che avevo davanti erano un branco di bestie che mi guardavano scandalizzate per il mio aspetto esteriore. Le donne poi erano di una bruttezza spaventosa… non appena fummo soli dissi chiaro e tondo a monsignore che non mi sentivo la vocazione di finire martire, nel giro di pochi mesi, in quel luogo… Anzi venga via anche lei!...La proposta lo fece ridere per il resto della giornata, ma se avesse accettato, non sarebbe morto di lì a due anni nel fiore dell’età… Così sessanta ore dopo esserci arrivato, lasciai Martorano. L’arcivescovo di Cosenza, uomo intelligente e ricco, volle ospitarmi in casa sua. A tavola, feci con slancio le lodi del vescovo di Martorano, ma criticai spietatamente la sua diocesi e poi tutta la Calabria, con tanto mordente che l’arcivescovo fu costretto a riderne con tutti i suoi ospiti… Partii dopo tre giorni di permanenza… feci tutto il viaggio con cinque figuri che avevano l’aria di essere corsari o ladri di professione.[…] ritenni prudente dormire sempre con addosso i pantaloni: precauzione necessaria più che per proteggere il denaro, per proteggere qualcosa d’altro, in un paese dalle tendenze tutt’altro che raccomandabili come quello. Arrivai a Napoli il 16 settembre 1743…”