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Scorcio del cimitero di Scandale in una foto By Ros |
LA VISITA
I miei vecchi riposano, già da tanto
tempo, nel piccolo cimitero di Scandale. Ci vado ogni anno, come tutti, nel periodo
della commemorazione dei defunti. Evito di andarci nei momenti di maggiore
ressa e di solito faccio passare qualche giorno. Quando arrivo, vado diritto
alle tombe, depongo qualche fiore nei vasi già pieni per precedenti visite di
altri familiari e poi mi soffermo un po’, davanti agli ovali dei loro volti con
lo sguardo perso nel vuoto.
Infine faccio un giro tra i viali
solitari del cimitero, incontro qualche sconosciuto, più raramente qualche vecchio amico con cui
scambio un saluto affettuoso, mi soffermo con attenzione ad osservare le tombe
dei trapassati dell’ultimo anno. È una rassegna a volte meravigliata, a volte
curiosa, a volte dolorosa: mi scorrono davanti agli occhi i volti di persone
sconosciute, oppure amiche e familiari.
L’ultima volta, già da lontano, ho
intravisto un volto noto, quello di Mario Panza. La foto lo rappresentava sorridente
e d’altra parte egli aveva sempre sorriso nel corso della sua vita, anzi si può
dire che fosse vissuto ridendo o sorridendo. Avvicinatomi, ho letto la data di
nascita, 29 febbraio 1936, ma ho visto che mancava quella della morte. Non
sapevo spiegarmi la cosa, ma, girando intorno alla tomba, ho notato un lato non
rifinito, in mattoni grezzi. Ho capito che il caro, vecchio Mario non era per nulla
scomparso e che soltanto, secondo un’abitudine molto diffusa dalle nostre
parti, si era già preparata la tomba, per eliminare, o ridurre al minimo, il
fastidio dei superstiti.
Mario Panza abitava vicino casa mia ed
era un abile cercatore di funghi, di verdura selvatica e di tutto ciò che
cresce in natura. Raccogliendo e rivendendo funghi, lumache e cicoria aveva
mantenuto una famiglia, moglie e una figlia. Di quest’ultima si diceva che non fosse veramente sua
figlia e comunque essa si dava arie da cittadina e disdegnava i modi rustici e
contadineschi dei genitori.
Ricordo che una volta, avevo forse una
decina d’anni, Mario mi portò con sé a cercar funghi. Egli mi guidava
attraverso gli anfratti ed avevamo già fatto una buona raccolta, quando, dietro un cespuglio,
trovammo due persone allacciate ed una di queste era la figlia. A sera,
ritornato a casa, gridò ed imprecò a lungo contro quella figlia e fu forse
l’unica volta della sua vita, perché per il resto egli aveva un eterno sorriso
stampato sulle labbra. Sorrideva di quella sua strana data di nascita, 29 febbraio,
anno bisestile, che lo induceva a dire che in realtà egli faceva un anno di età
ogni quattro anni. Sorrideva di quel suo strano mestiere, che riteneva un po’
comico, per via del fatto che, come diceva, egli si limitava a vendere ciò che
la natura produceva spontaneamente e che chiunque, con un po’ di buona volontà,
avrebbe potuto raccogliere da solo.
Lo scorso Novembre, ultimato il giro al
cimitero, mi è venuta voglia di andare a dare uno sguardo alla casa paterna,
ormai disabitata da anni. L’ho trovata, come era facile attendersi, in evidente
stato di incuria. Ho aperto con difficoltà e con qualche esitazione, poi ho
fatto un giro. In una stanza, impolverato, ho ritrovato il vecchio tavolo su
cui studiavo tanti anni fa. Su quel tavolo, da bambino, scrivevo le lettere di
zia Mariuzza. Vedova e con tutti i figli emigrati per il mondo, dal Canada al
Brasile, veniva da me a farsi scrivere le lettere di risposta ai figli, che
periodicamente le mandavano qualche dollaro e qualche cruzeiro acclusi nelle
buste, nella speranza che i soldi potessero sfuggire alle grinfie degli
impiegati postali di due continenti, cosa che non sempre avveniva. La zia Mariuzza
mi diceva quel che io dovevo scrivere, ma più spesso parlava direttamente con i
figli, come se li avesse a qualche metro di distanza. Spesso si lasciava prendere
dalla commozione, parlava singhiozzando ed io, che non sempre riuscivo a dare
un senso alle sue lacrime, la guardavo incuriosito. Lei si accorgeva della mia
sorpresa, si ricomponeva e mi sorrideva.
Dietro i vetri di quella finestra,
spesso appariva zia Elena, vicina di casa. Anche lei vedova, veniva a riportare
a casa l’una o l’altra delle numerose figlie, che amavano di tanto in tanto
trascorrere un po’ di tempo a casa nostra, in compagnia dei cugini. Non stava
bene allora questa promiscuità, anche tra parenti, perché così si viveva allora
e così si pensava che bisognasse vivere, specie quando si avevano in casa
ragazze da marito e la gente, fuori, era sempre pronta a tagliuzzare. La stessa
cosa del resto succedeva a me, che amavo stare con le mie cuginette e spesso
con una scusa mi recavo a casa loro. Zia Elena tollerava per qualche tempo,
poi, inesorabilmente, mi rispediva a casa ed io, un po’ mogio e con la coda tra
le gambe, mi ritiravo, con il dubbio e la sensazione di aver compiuto chissà
quale misfatto.
Su quella sedia, in cucina, spesso si
sedeva zio Amedeo. Tra i tanti fratelli di mio padre, era il solo ad avere
studiato fino alla licenza media e faceva quindi un lavoro intellettuale per quei tempi: era
l’unico dipendente della locale esattoria comunale. Di ritorno dalle sue
solitarie passeggiate, durante le quali si spingeva fino alle ultime case del
paese, amava fermarsi a casa nostra. Afflitto da leggera balbuzie, non era di
certo un gran parlatore, ma immancabilmente trovava il modo di chiedermi
qualcosa sui miei studi. Non appena io accennavo una risposta, egli trovava il
pretesto per parlare dei suoi studi e di come la scuola fosse cambiata in
peggio, con i professori che ormai non insegnavano più nulla.
Ad un angolo del focolare, su quella sedia
che ora appare un po’ sbilenca, durante le lunghe e fredde sere d’inverno, si
sedeva ogni tanto zia Silvia, unica non sposata della numerosa famiglia e che
con il suo malinconico sorriso sembrava come rassegnata alla sua condizione di
eterna zitella. È morta qualche anno fa zia Silvia, ultima dei tanti fratelli e
sorelle, e negli ultimi tempi della sua vita, mentre era ricoverata in
ospedale, sono andato spesso a trovarla, ad alleviare la sua solitudine. E lei
mi accoglieva sempre con il suo eterno, malinconico sorriso, per dimostrarmi la
sua gratitudine e talvolta mi faceva trovare pure dei pasticcini, che io
fingevo di apprezzare e che conservavo, dicendole che li avrei mangiati a casa
la sera.
Le stanze spoglie e mute sembrano
ancora risuonare delle loro voci, ormai dissolte dal tempo. Mentre giro per la
casa, mi ritrovo nella stanza dei miei genitori. C’è ancora un vecchio letto a
baldacchino, solenne come un catafalco. Apro istintivamente un comodino, ne
tiro fuori un vecchio pitale arrugginito, che resiste quasi come a volere sfidare
il tempo, mentre tante altre cose sono sparite o comunque non ci sono più.
Ogni volta che ritorno in quella casa,
trovo che mancano alcune cose, piccole e povere cose per lo più, come il resto
dei mobili che sarebbe troppo costoso restaurare o trasportare altrove.
Era una vita semplice quella portata
avanti dai miei vecchi. Mia madre, figlia di un farmacista di Casabona, si era
trasferita nel nuovo paese dopo il matrimonio con mio padre, che era un piccolo
possidente agricolo. Qui si era trovata bene ed era benvoluta, cosa non
infrequente nel mio paese, dove tutti hanno una naturale propensione ed un
istintivo rispetto per quelli che vengono da “fuori”, come ancora oggi si usa dire.
Ho ancora l’impressione di risentirli, di
rivederli, come una volta, quando entrambi si facevano segno di parlare a bassa
voce, per non disturbare me, che dovevo studiare e non dovevo perdere tempo.
Mia madre, in particolare, nutriva grandi progetti su di me e nelle sue parole
si avvertiva tutto l’orgoglio possibile, quando con amici e parenti parlava di
me e dei miei successi scolastici.
Ora la rivedo quasi, mentre insieme con
mio padre sembra incamminarsi su una strada che non conosco. Ogni tanto si
volta verso di me e mi fa un cenno con la mano, invitandomi chiaramente a non
seguirla. Poi riappaiono anche zia Mariuzza, zia Elena, zio Amedeo, zia Silvia.
Tutti insieme continuano su quella strada, parlottano insieme a bassa voce,
come un tempo, svoltano l’angolo e si dissolvono nel nulla.
Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale
l’Espresso, 2012, pag. 186