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Ragazzi di Scandale in una foto degli anni Sessanta |
Bozzetto di paese :"U
vettu e ra squigghia"
Tra i giuochi della mia
fanciullezza c’era quello d’ “u vettu e ra squigghia”, oggi del tutto scomparso
e sostituito da ben altri giochi e passatempi. A quel che ne so, il giuoco ha
tanti nomi diversi nei vari dialetti, come “lippa” o “scianco”, ed era anche
praticato con un’infinità di regole diverse. Al mio paese si giocava con due
legni, di cui uno più lungo, il vettu, e l’altro più corto e appuntito sui due
lati, la squigghia. Si scavava per terra una piccola fossa lunga e stretta,
dove si poneva la squigghia, che veniva fatta rimbalzare e colpita in aria con
il vettu, allo scopo di farla andare il più lontano possibile. Vinceva chi
mandava la squigghia più lontano degli altri. Ma c’erano alcune varianti e
soprattutto esso era molto pericoloso. Quella squigghia spesso volteggiava in
modo inaspettato e non era infrequente che cadesse sulla testa di qualcuno, ma
anche il vettu faceva la sua parte, perché era spesso maneggiato in modo
maldestro e tante volte, invece di colpire la squigghia, colpiva la testa di
qualche malcapitato, quando non sfuggiva dalle mani di qualcuno, con esiti del
tutto imprevisti.
In genere, proprio per
evitare incidenti agli estranei, si andava a giocare su una collinetta fuori
paese, il “timpone”, oggi deturpata dalla speculazione edilizia, ma allora
ricoperta interamente di ulivi. Tra i rami di quelle piante spesso finiva col
posarsi la squigghia, che poi cercavamo di recuperare con un fitto lancio di
pietre e con qualche pericolo supplementare per le nostre teste.
Allora i bambini erano
spesso rasati a zero, forse per motivi di prevenzione, perché i pidocchi non
erano degli animaletti del tutto sconosciuti nelle aule scolastiche, ma anche
per motivi economici, perché così si poteva maggiormente diluire nel tempo il
successivo taglio di capelli. In quelle circostanze, i bambini esibivano le
cicatrici sulla testa come dei trofei di guerra e non era da escludersi che
qualcuno, che si fosse trovato con la testa completamente liscia, se ne
vergognasse un pochino.
Ogni tanto, dopo
l’uscita da scuola, specie in inverno quando le giornate erano corte e al
pomeriggio non si aveva molto tempo a disposizione, non disdegnavamo di fare
una partitella veloce, anche per strada o addirittura nella piazzetta
principale del paese. Le strade erano in terra battuta ed era
facile scavare la fossetta di partenza per la squigghia. Le auto erano rare e,
quando se ne vedeva qualcuna, ci si fermava per un po’. Più frequenti erano gli
asini, ma in quel caso ci si limitava solo a qualche precauzione, consapevoli
del fatto che gli asini, abituati alle legnate dei contadini, probabilmente non
avrebbero fatto caso all’eventuale colpo della squigghia. Qualche volta
passavano greggi di capre o di pecore, di ritorno dalla campagna, e allora
l’interruzione era lunga, perché in quel caso bisognava anche aspettare che si
diradasse il polverone suscitato da centinaia di animali, chiaramente non
disposti a sollevare le zampe per consentirci di riprendere subito il giuoco.
Se poi passava qualche
persona, ci si regolava di volta in volta, a seconda della suscettibilità e
della pericolosità degli interessati. Quando passava nonna Betta, c’era poco da
scegliere: ad evitare guai, bisognava solo smettere. Nonna Betta era una
simpatica vecchietta di circa ottanta anni, vispa e incline a scherzare un po’
con tutti, ma che non sopportava in alcun modo gli schiamazzi e gli strilli dei
bambini. Sembrava farlo apposta: non appena si accorgeva che noi stavamo
giocando nello spiazzo antistante la cappelletta di San Leonardo, appariva
sulla porta di casa e noi ci facevamo subito un cenno d’intesa. Poi, lentamente
e con apparente noncuranza, andava a fermarsi proprio sulla fossetta della
squigghia, che lei ricopriva completamente con la sua gonna larga a
campana e lunga fino ai piedi. Non si moveva da lì e allora qualcuno,
impaziente di riprendere il giuoco, infilava una mano sotto la sua gonna per
riprendere la squigghia, che però risultava quasi sempre bagnata, mentre la
fossetta a terra era inumidita o ripiena di un liquido giallastro chiaramente
identificabile.
Con tanta pazienza
provvedevamo a creare un’altra squigghia e a scavare un’altra fossetta. Ma,
dopo un po’, lei abbandonava la sua postazione e, come nel gioco dei Quattro
cantoni, si posizionava sulla nuova fossetta e sulla nuova squigghia, che
provvedeva subito ad irrorare con il contenuto di quella che a noi appariva
come una vescica gigantesca ed inesauribile. Il giochino poteva essere ripetuto
all’infinito, perché evidentemente nonna Betta aveva un’incredibile capacità di
immagazzinamento, di controllo e di distribuzione diretta e senza ostacoli dei
suoi liquidi, talché il più delle volte decidevamo di ritirarci, pur con
qualche imprecazione, rinviando il tutto a momenti più fortunati.
Si giocava così al tempo
della mia fanciullezza, in modo semplice e con giuochi costruiti interamente da
noi stessi. Non si pretendeva molto dalla vita e si era felici quando si poteva
giocare e si poteva trascorrere qualche ora in modo spensierato. Ma qualche
volta i problemi nascevano e comportavano spiacevoli conseguenze.
In un giorno
particolarmente rigido di Dicembre, le fontanelle pubbliche erano ghiacciate e
presentavano al posto dell’acqua delle strane stalattiti che consentivano ai
bambini un insolito passatempo. Anche lungo le strade, là dove una volta si
formavano delle pozze d’acqua, si vedevano delle incredibili lastre di
ghiaccio, ma questo non ci aveva impedito, all’uscita da scuola, di dedicarci
un po’ al nostro giuoco preferito. Quando arrivò il mio turno di battuta, dopo
aver fatto rimbalzare la squigghia, riuscii a colpirla con precisione. Il
legnetto volteggiò nell’aria, favorito anche dal leggero vento di tramontana,
poi, con una parabola morbida e sinuosa, roteò su se stesso e sembrò finalmente
volersi posare per terra. Ma finì su una lastra di ghiaccio, schizzò un’altra
volta in aria e ultimò la sua rincorsa su una finestra della bottega artigiana
di mastro Eugenio, calzolaio, che proprio dietro quella finestra stava dando
gli ultimi colpi di martello ad una scarpa che aveva appena finito di
aggiustare.
Un sordo rumore di vetri
infranti fu l’ultima cosa che sentimmo, perché, già un attimo dopo, tutti
eravamo scappati via e la strada si presentava incredibilmente e
misteriosamente deserta. Ma mastro Eugenio non impiegò molto a sapere quel che
era successo e soprattutto chi era il colpevole. Lo capii un paio d’ore dopo,
quando mi decisi a rientrare a casa, cercando di assumere un atteggiamento che
avrebbe voluto essere disinvolto. Mia madre, come talvolta faceva in
circostanze del genere, me le diede di santa ragione. Incominciai a covare un
sordo rancore nei confronti di quell’omino basso e spelacchiato, che oltre
tutto aveva preteso anche la riparazione del danno, cosa che, in quei tempi di
ristrettezze, non era senza conseguenze per i bilanci familiari.
Qualche giorno dopo,
quando il mio rancore era ancora ben lontano dall’essere sopito, sul far della
sera, vidi mastro Eugenio che aveva chiuso la bottega e si apprestava al
ritorno a casa. Nascosto dietro un muretto, tirai fuori la fionda che portavo
sempre con me, la caricai con un bel ciottolo, presi la mira e lanciai. Forse
mai in precedenza mi era riuscito un tiro migliore. Il ciottolo si diresse
inesorabile verso il bersaglio, ma sfiorò soltanto la testa di mastro Eugenio,
colpendo in pieno il bel Borsalino nero che egli portava sulla capoccia, certo
per difendersi dal freddo, ma soprattutto per nascondere la calvizie, che molto
lo angustiava. Il calzolaio sentì solo il soffio del ciottolo che l’aveva
sfiorato, ma vide il suo cappello rotolare nel fango e fece una rincorsa per
recuperarlo. Gridò disperato, quando vide che il suo bel Borsalino nero e
ancora nuovo, che aveva comprato solo qualche giorno prima a Crotone da
Macirella, pagandolo ben tremila Lire, orbene quel Borsalino presentava sulla
parte posteriore un ampio strappo, che l’aveva irrimediabilmente rovinato. Poi
si girò attorno, per cercare di capire quel che era successo, da dove era
arrivato quel ciottolo, ma non vide nulla: la strada era deserta e poco si
poteva distinguere nelle ombre della sera.
Mastro Eugenio andò a
protestare un’altra volta a casa mia, ma questa volta non aveva prove e
soprattutto non aveva testimoni. Mio padre lo cacciò fuori di casa in malo modo
e questo fu solo l’inizio di una lunga serie di incomprensioni, e talvolta di litigi,
che alla fine sfociarono in una vera e propria inimicizia, che in seguito
avrebbe caratterizzato i rapporti tra le due famiglie.
Non so se mastro Eugenio
si rassegnò mai alla perdita del suo Borsalino nuovo. Qualche tempo dopo,
mentre ero intento a gustare per strada dei “crustoli” natalizi, mi sentii
afferrare dalla collottola. Era lui. Mi venne l’istinto di scappare, ma lui non
mollò la presa con le sue mani che odoravano di sego e di cuoio, mi
tranquillizzò sulle sue intenzioni e mi disse: “Senti! Tu puoi giocare quanto
vuoi con la squigghia o con la fionda, ma di questo a me non interessa proprio
niente. A me non interessa niente neppure del cappello. L’unica cosa che mi sta
a cuore è quella di non passare per fesso e io non voglio passare per fesso e
non voglio stare con questo rovello che mi frulla continuamente nella testa. Tu
mi devi solo dire se sei stato tu a bucare il mio Borsalino e poi ti lascio
andare, amici come prima. Perciò, guardami negli occhi e dimmelo. Sei stato
tu?”
Fui costretto a
deglutire a vuoto prima di rispondere. Poi inghiottii il “crustolo” che avevo
ancora in bocca e, quando finalmente mi sentii tranquillo e libero di
rispondere, avevo già preso una decisione sulla risposta. Riuscii a guardarlo
negli occhi e gli dissi: “Mi dispiace, mastro Eugenio, ma non sono stato io e
non so chi è stato. Mi dispiace”. Mastro Eugenio mi strattonò un poco, poi
mollò la presa e si allontanò, sbraitando: “Tutti uguali questi ragazzi di
oggi, tutti, tutti uguali. Ma non è ancora finita! Tutti uguali, tutti…”.
Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo
Editoriale l’Espresso, 2012, pag. 9