martedì 30 aprile 2013
lunedì 29 aprile 2013
domenica 28 aprile 2013
Eroe in erba - Racconto di Ezio Scaramuzzino
Scandale - Piazza Oberdan in una foto degli anni Cinquanta conservata da Luigi Aprigliano. Sulla destra, il famoso Bar Centrale. |
EROE IN ERBA
Un autunno di tanti anni fa mi
ritrovavo seduto sulla veranda del Bar Centrale. Molti del nostro gruppo erano
già partiti per andare a cercar fortuna fuori ed al paese eravamo rimasti in
pochi: giusto quelli che, come me, erano riusciti a trovare un lavoro tra le
braccia protettrici dello Stato e gli altri che non si decidevano a partire, in
attesa di tempi migliori.
Alcuni, all’interno, si accapigliavano
nell’ennesima partita di Terziglio, mentre io, distrattamente, osservavo
l’andirivieni delle poche persone nella piazza circostante.
Mi venne incontro Franco Tribelli, che
non vedevo da tanto tempo. Venne a salutarmi, con affetto e con quel sorriso
eternamente stampato sulle labbra, che sembrava il sigillo della sua vita piena
di vicende meravigliose, delle quali egli, di tanto in tanto, mi rendeva
partecipe.
Contenti di ritrovarci, dopo i
convenevoli di rito, rievocammo insieme alcuni episodi della nostra vita.
Ricordammo con piacere, in modo particolare, una incredibile mangiata di
fichidindia che ci aveva accomunati da ragazzi. Lui, più grande di me di
qualche anno, mi aveva trascinato di notte in un orto privato dove crescevano
quelle meravigliose piante spinose ricoperte di dolcissimi e saporitissimi
frutti. Al chiarore della luna piena, ne mangiammo per un paio d’ore, badando a
non riempirci di spine e scegliendo di preferenza quelle verdi, chiamate
“napoletane”, che trovavamo divinamente gustose. Il giorno dopo, purtroppo, ci
colpì una occlusione intestinale, che si risolse solo con un solenne clistere,
prescritto dal medico Mauro e praticatoci dall’infermiere don Agostino.
Franco mi raccontò poi gli ultimi
accadimenti della sua vita. Dopo la laurea in medicina si era stabilito a
Torino, dove si era fidanzato e dove aveva richiesto di essere incluso nelle
graduatorie del Servizio Sanitario Nazionale. L’assunzione però tardava ad
arrivare e qualcuno gli aveva suggerito di incrementare il punteggio in
graduatoria con qualche documento integrativo. Ad esempio la certificazione di
un qualche merito antifascista valeva ben dieci punti in più in graduatoria,
quasi quanto la laurea, e a lui era venuta una buona idea. Si era ricordato,
beh …si era ricordato, improvvisamente e quasi come in una folgorazione, che da
bambino, un qualche merito antifascista lui se l’era guadagnato.
Sempre più incuriosito, soprattutto per
il fatto che a me non risultava che dalle nostre parti ci fosse mai stata una
qualche forma di lotta antifascista o partigiana, lo invitai ad andare con
ordine ed a raccontarmi la vicenda che l’aveva coinvolto. E lui, da
straordinario narratore di se stesso, non si fece pregare, facendo ricorso al
meglio delle sue capacità fabulatorie.
Il 9 settembre del 1943 gli abitanti di
Scandale, che, come ogni mattina si stavano preparando al lavoro nei campi o
nelle botteghe artigiane, si accorsero con somma meraviglia che la strada
principale del paese era occupata da un gruppetto di soldati tedeschi,
preceduti da un’ autoblindo.
Scandale non si trovava su una grande
via di comunicazione e non ci volle molto a capire che con tutta probabilità
quei soldati, dall’aspetto tutt’altro che marziale, in realtà si erano sbandati
e cercavano solo di proseguire con ogni mezzo nella loro ritirata verso il
nord. Un soldato tedesco chiese qualcosa a gesti ad un contadino che si trovava
a passare, ma quest’ultimo, impaurito, spronò il suo mulo e sparì velocemente.
Altre persone, superata la diffidenza iniziale, si accostarono e capirono che i
soldati volevano solo, se possibile, comprare qualcosa da mangiare. Non ci fu
nessuna manifestazione di ostilità nei loro confronti. I soldati, una
quindicina in tutto, furono accompagnati ad un negozio, dove poterono
rifornirsi del poco che era possibile avere in quei tempi calamitosi.
Un codazzo di bambini incuriositi e
quasi divertiti li seguiva. I soldati si procurarono soprattutto del pane,
molto pane, ma un grosso problema nacque al momento di pagare. Uno di loro,
lentamente, poggiò la mano sulla tasca posteriore, quasi volesse prendere la
pistola e procurando un po’ di apprensione nei presenti. Invece si limitò a
prendere il portafogli e ne estrasse dei marchi tedeschi intonsi, nuovissimi,
che il bottegaio di Scandale non conosceva, perché non ne aveva mai visti
prima. Non li accettò, ma i Tedeschi non avevano altro denaro e si rifiutarono
di restituire quel cibo per loro preziosissimo. Ne nacque un’animata
discussione che vide i Tedeschi andar via senza pagare e, nel parapiglia che ne
seguì, un bambino di sei anni, uno solo, lui, il bambino Franco Tribelli,
scagliò una pietra. La quale volteggiò nell’aria, roteò, seguì una morbida
parabola prima ascendente, poi discendente e ultimò la sua traiettoria andando
a posarsi, con tutta la forza di cui era capace, sui capelli biondi di un
soldato teutonico.
Il quale, colpito, prima sbandò
leggermente, facendosi sfuggire dalle mani un pane gelosamente custodito, poi
si riprese subito, raccattò il pane, si mise una mano sulla testa, da cui
fuoriusciva qualche goccia di sangue, e raggiunse velocemente i compagni in
fuga.
Ora, a distanza di quasi trenta anni,
Franco ritornava al suo paese per chiedere al sindaco una certificazione di
quella sassata, di quel colpo ben assestato, che, pur nella sua modestia, era
forse stato il primo sintomo di una lunga serie di altri colpi, ben più
poderosi, che nell’arco di due anni avrebbero portato alla dissoluzione del
grande Reich tedesco. Franco concluse il suo racconto dicendomi che il giorno
dopo sarebbe stato in Comune e io, incuriosito, lo pregai di tenermi al
corrente.
Ci rivedemmo qualche giorno dopo e, con
un cenno d’intesa, gli chiesi come era andata. Egli non mi rispose e con fare
solenne mi fece segno di pazientare un attimo. Mise mano ad una borsa, ne tirò
fuori con compiacimento un foglio, intestato Comune di Scandale, e me lo porse.
Lo aprii con una curiosità che mi divorava e potei leggere più o meno quanto
segue:
Il Sindaco, da informazioni assunte,
certifica che in data 9
settembre 19 43 il bambino Franco Tribelli, nato il 9 dicembre 19 36,
all’età di anni 6 e mesi 11, con intrepido coraggio si scagliava contro
l’invasore tedesco, esternando il suo smisurato amor di patria ed il suo
smisurato amore per la libertà con il lancio di oggetto contundente che
provocava scompiglio nell’esercito aggressore, determinandone una improvvisa
fuga con conseguente liberazione della comunità di Scandale. La popolazione
tutta, memore, ringrazia.
Entrambi manifestammo un sorriso
complice, poi restituii il documento e ci abbracciammo per salutarci. Il giorno
dopo il mio amico sarebbe ritornato a Torino.
Oggi Franco è felicemente sposato, ha
due figli e lavora come primario internista in una clinica di Torino del
Servizio Sanitario Nazionale. Una volta andai pure a trovarlo nella clinica,
solo per il piacere di rivederlo. Dovetti fare un po’ di anticamera, ma mi
accolse con cordialità e si intrattenne con me a lungo, suscitando anche le
proteste di qualche paziente in attesa. Era attorniato da un codazzo di giovani
assistenti e si dava un certo tono. Ogni tanto ritorna al paese.
Ezio Scaramuzzino, Violetta spensierata e altri racconti, Gruppo Editoriale
l’Espresso, 2012, pag. 152.
venerdì 26 aprile 2013
Gioacchino Murat
GIOACCHINO MURAT
Re di Napoli
Gioacchino Murat |
Temendo che dal congresso di Vienna,
non gli venisse riconfermato il titolo regio, nel marzo 1815 dichiarò guerra
all’Austria, lanciando da Rimini un famoso proclama in cui (lui francese)
esortava gli italiani a lottare per l’indipendenza dagli stranieri. Sconfitto a
Tolentino si rifugiò in Corsica, dove tentò di organizzare un estremo tentativo
di riconquista del trono napoletano. Ma, sbarcato a Pizzo Calabro, fu catturato
e fucilato dai soldati borbonici.
giovedì 25 aprile 2013
mercoledì 24 aprile 2013
martedì 23 aprile 2013
Chiuse le indagini sulla Centrale Turbogas di Scandale
La Centrale Turbogas di Scandale in una foto By Ros del 2010. |
Chiuse indagini su centrale Scandale
(ANSA)– Crotone – La Procura di Crotone ha
chiuso le indagini nei confronti di 12 persone, tra professionisti e
imprenditori, coinvolti nell’inchiesta chiamata Energopoli relativa alla
presunta truffa da 15 milioni sulla mancata realizzazione del Contratto di
programma di Scandale per la costruzione di una centrale a turbogas.
Gli indagati, tra i quali l’ex Ad di
Barclay bank, sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere,
riciclaggio, truffa, falso, estorsione e minacce.
Notizia pubblicata dall’Agenzia ANSA.it
il 19 aprile 2013 .
lunedì 22 aprile 2013
Habemus Presidente
domenica 21 aprile 2013
Iginio Carvelli - Il 50° di sacerdozio di Don Renato
Don Renato in una foto pubblicata in passato da Area Locale |
Discorso di Iginio Carvelli, pronunciato
per la ricorrenza del 50° di sacerdozio di Don Renato (1947-1997).
Questo straordinario momento, carico di
grande significato e di tanta emozione, mi fa sentire inadeguato di
rappresentare e di esprime il pensiero del laicato cattolico di questa nostra
piccola comunità scandalese.
Ma don Renato, in questa solennità,
rimane, come sempre, con tutta la semplicità che ha caratterizzato la sua
azione pastorale durante i suoi 50 anni di presenza in mezzo a noi. Mi aiuta
Lui stesso, dunque a vincere questo senso di inadeguatezza e rendere
presentabili le mie povere parole.
Non sappiamo quanto don Renato sia
contento, se vediamo questo suo 50° come la sera del pastore quando conta il
gregge e conta quante sono rimaste prigioniere negli anfratti e nei roveti,
quante smarrite o nelle mani dei bracconieri!
Quanti di noi sono ancora lontani,
quanti di noi hanno messo le mani all’aratro e sono tornati indietro, quanti
sono stati vinti dal dubbio, quanti dall’egoismo, quanti ancora non riusciamo a
convertirci con la sincerità del cuore e della mente.
Oggi è la sera di un giorno lungo 50
anni e il tuo raccolto, oh Padre, è forse scarso e molti mancano all’ovile.
Ma noi vorremmo testimoniarti che hai
lavorato senza mai stancarti, che hai seminato con l’amore e la speranza del
contadino, che hai inumidito le zolle del tuo campo anche con le lacrime dello
sconforto, lacrime che non mancano mai nella vita di un sacerdote. Noi sappiamo
tutto questo e per questo ti diciamo grazie anche se a volte o spesso siamo
rimasti sordi alla tua parola, anche se non abbiamo saputo sfruttare il dono
della grazia.
Il 50° del tuo sacerdozio è la grande
occasione per noi tutti per ringraziarti a nome dei nostri fratelli che hanno
visto la tua mano alzarsi sui loro sguardi in cerca di perdono; per esprimerti
riconoscenza per quanto hai fatto per condurci alla conversione.
Ti ho visto, sere addietro, come tante
volte, solo con i tuoi pensieri e i tuoi affanni sul colle del Condoleo e ho
detto tra me: ecco Aronne, ecco Mosè. L’uomo che ha sfidato l’avversità, che ha
compiuto il miracolo della fede , il miracolo dell’amore, nel cammino verso la
terra promessa, un cammino di grandi prodigi, di tante rese, di molti tradimenti
ma sempre e comunque in cammino di speranza .
È stato difficile per Mosè guidare il
suo popolo. È stato difficile per don Renato
guidare questo popolo. Un popolo è sempre difficile perché c’è sempre un
Caino e c’è sempre un Abele, c’è sempre un figlio sulla strada del ritorno e un
figlio turbato dall’egoismo, dalla gelosia, dal rancore. E il sacerdote è padre
dell’uno e dell’altro.
I 50 anni di sacerdozio di don Renato
sono segnati da questi infiniti momenti di difficoltà in cui l’ho visto
perdente, deluso, abbattuto, scoraggiato e forse sul punto di lasciare,
abbandonare e fuggire. Quante volte le sue gridate e i suoi silenzi hanno
nascosto l’amarezza della solitudine e il tormento dell’abbandono! Quante volte
ha gridato con il salmista “Che cosa ti ho fatto, popolo mio, perché tu mi
maltratti così”. Io l’ho sentito questo grido e mi è sembrato quello dell’uomo
sconfitto, ma ogni volta ho capito la
grandezza del suo sacerdozio. Non c’è un prete vincente, c’è sempre un prete
crocifisso. Forse per questo abbiamo visto don Renato sempre dove c’è stato un
dolore. Nel dolore c’è il povero, c’è l’uomo, c’è il Cristo perché Lui, il
Signore, è sulla strada del dolore dove cammina l’afflitto e il carcerato,
l’orfano e l’ammalato, il debole e il perseguitato.
Ora una preghiera: Oh Signore, conceda
vita lunga a don Renato perché questo popolo ha ancora bisogno della sua guida
sicura sulla strada della verità e della carità.
Scorcio di Villa Condoleo a Scandale, sede della Casa di Carità. |
venerdì 19 aprile 2013
Bernardino Telesio
Sopra, la statua di Bernardino Telesio
davanti al Teatro comunale Alfonso Rendano di Cosenza
|
Bernardino Telesio nasce a Cosenza nel 1509.
Da giovane si recò a Padova per studiare matematica, ottica e filosofia,
laureandosi nel 1535.
Visse per lunghi periodi a Roma Bologna
e Napoli, prima di ritirarsi nella sua Cosenza dove diresse l’Accademia Cosentina, chiamata Telesiana dopo la sua morte, avvenuta
nel 1588.
La sua opera principale è De rerum natura iuxta propria principia
(La natura secondo i suoi propri principi) in nove libri, la cui pubblicazione
iniziò nel 1565 per finire nel 1586.
Tra le altre opere vanno ricordate il De his quae in aëre fiunt, il De terrae motibus, il De colorum generazione e il De mari, pubblicati nel 1570. Dopo la
sua morte furono pubblicati il De comoetis
et lacteo circulo, il De iride e
il De usu rirespirationis.
Detto da Bacone «il primo degli uomini
nuovi», Telesio elabora un organico sistema della filosofia della natura,
partendo dal presupposto che per ottenere una visione vera delle cose occorre
che questa visione sia diretta e non vincolata da concetti astratti “come il
ragionamento degli antichi presumeva ad essi necessari”.
Nasce così l’anti-aristotelismo di
Telesio. La natura va riconosciuta e studiata “in base a quello che appare”
perché essa è completamente autonoma.
giovedì 18 aprile 2013
mercoledì 17 aprile 2013
Massime e aforismi - Charles Baudelaire
martedì 16 aprile 2013
lunedì 15 aprile 2013
domenica 14 aprile 2013
Scandale - Pagine di storia
L’entrata del paese in una foto di Mastro
Armando Gentile, scattata all’inizio del 1958, cioè (come mi disse qualche anno
fa il figlio Orlando) pochi mesi prima che iniziassero i lavori per la
costruzione della palazzina che c’è adesso. Probabilmente, quella che vedete
sulla sinistra è forse l’unica immagine della vecchia “Forgia”.
Giuseppe Caridi
ASPETTI E MOMENTI DELLA VITA DI UN CASALE RIPOPOLATO:
SCANDALE NEL SEICENTO
Nonostante i primi insediamenti umani
nel suo territorio si facciano risalire ai tempi preistorici, estremamente
scarse sono le notizie relative a Scandale prima del secolo XVI. Gli stessi
eruditi calabresi del periodo vicereale, che pure sul passato più o meno
recente di tante contrade della loro regione forniscono interessanti, anche se
non sempre attendibili, informazioni, a proposito di questo centro, oggi comune
in provincia di Catanzaro, si limitano a notare semplicemente che si trattava
di un casale di Santa Severina. Così si esprimono infatti Gabriele Barrio, a
metà del secolo XVI e, qualche decennio dopo, il Marafioti e il Nola Molisi.
Giovanni Fiore, che scrive nella seconda metà del Seicento, aggiunge solo che
Scandale ai suoi tempi era «abitazione civilissima». A tutt'oggi, mentre sulle
vicende di altri centri dell'entroterra crotonese in qualche modo si è scritto
— e mi riferisco, ad esempio, ai lavori di Salerno e Bernardo su Santa Severina
e, più recentemente, di Maone su San Mauro — è probabilmente da attribuire
proprio a questo silenzio pressoché completo delle fonti narrative, oltre che
alla esiguità e difficoltosa reperibilità della documentazione superstite, la
mancanza di una monografia su Scandale. Già situato a sud-est dell’ubicazione
attuale, in località detta appunto «Scandale Vecchio», il casale di Scandale
figura fra le 393 terre calabresi abitate nella seconda metà del Duecento.
La sua popolazione, secondo il Pardi,
che si avvale di registri angioini oggi distrutti, conta 431 unità nel 1276.
Quattro anni prima, nel 1272, signore feudale di Scandale risulta Guglielmo di
Amendolea, barone di Calatabiano, già ribelle agli Svevi e compensato da Carlo
I d'Angiò con ampie concessioni territoriali in Sicilia e Calabria.
Nel corso del Trecento la Calabria , come tutte le
altre regioni dell'Europa occidentale, fu colpita da una gravissima crisi
demografica, le cui cause più virulente furono la carestia del 1315 e la peste
nera del 1348, che determinò la scomparsa di numerosi centri abitati. Nel 1505,
benché fosse già in atto in campo demografico un’inversione di tendenza, dal Levamentum
Foculariorum Regni, aggiornamento a fini fiscali della popolazione del
Regno di Napoli operato dalla nuova monarchia spagnola, si rileva che la
popolazione calabrese era distribuita in 245 terre, 148 in meno cioè rispetto a
due secoli e mezzo prima. Scandale, come pure la vicina S. Mauro, fa parte di
questi centri spopolati. Il suo territorio era stato infatti già da tempo
assorbito da quello di Santa Severina, le cui vicende politico-amministrative
avrebbe perciò seguito, come sua parte integrante, fino a metà del secolo XVI.
Sappiamo pertanto che nel 1402 Scandale risulta infeudato a Nicolò Ruffo,
marchese di Crotone e conte di Catanzaro, per passare, con la sua morte, alla
figlia Enrichetta che lo recò in dote al marito Antonio Centelles. Nel novembre
1444, Scandale è indicato come casale disabitato di Santa .Severina nel
privilegio con cui Alfonso il Magnanimo, a causa della ribellione del
Centelles, revoca al demanio regio il territorio santaseverinese che, salvo una
breve parentesi tra il 1462 e il 1466, sarebbe rimasto demaniale fino al 1496.
Nell'ottobre di questo anno il re Federico d'Aragona concede ad Andrea Carafa,
dietro il versamento di 9 mila ducati, la contea di Santa Severina, che oltre
alla stessa città e ai suoi casali comprende Roccabernarda, Policastro, Le
Castella e Cirò. Al Carafa —
membro di una delle maggiori casate napoletane che in Calabria Ultra si
divideva nei rami di Santa Severina e Roccella — la contea è confermata nel
1503 da Consalvo di Cordova e quindi, nel 1506 e 1507, da Ferdinando il
Cattolico. Ulteriori conferme giungono al conte di Santa Severina nel 1516 e
nel 1520 dall'imperatore Carlo V che, l'anno dopo, dispone in suo favore la
reintegrazione dei beni feudali indebitamente sottratti.
Dal documento di reintegra risulta che
Andrea Carafa possedeva la città di Santa Severina, i casali di Cutro e
S. Giovanni Minagò e le terre di Roccabernarda, Le Castella, Ciro e S. Lucido. Nessuna menzione tra
i casali santaseverinesi si trova quindi di Scandale, che è invece considerato
feudo disabitato, al pari di S. Mauro, S. Stefano, S. Leone e Turrotio; si
indicano inoltre i terreni in cui si articola, con la relativa estensione:
«Scandale
piccolo», di 21 salmate (ogni salmata è equivalente a ha. 2,691).
«Lo
Prato de la Torre di Scandale», di salmate 25.
Terre
dette «Li Communi di Scandale», di salmate 50.
«Santo
Elia», di salmate 60, tenuto in suffeudo dal nobile napoletano Antonio de
Galluccio.
Tenuta
di circa 50 salmate adibita dal conte a prato dei puledri delle sue mandrie.
Conferenza
sulla storia di Scandale tenuta dal Prof. Giuseppe Caridi a Villa Condoleo il 16 maggio 1986 . Il
pezzo sopra è solo una piccola parte dell’articolo completo successivamente
pubblicato dall’Archivio Storico per la Calabria e la Lucania , anno LII (1985)
– Roma, Tipografia della Pace 1987.
venerdì 12 aprile 2013
Quando Pasolini parlava male di Cutro
Palazzo del Comune a Cutro |
Il
17 novembre 19 57
il ragioniere Vincenzo Mancuso, sindaco del comune di Cutro querela Pasolini
per "diffamazione a mezzo stampa".
La
denuncia si riferisce ad un articolo dal titolo "La lunga strada di
sabbia", facente parte di un reportage sulle spiagge italiane, pubblicato
nel settembre del 1957 sul mensile "Successo". L'esposto del sindaco
di Cutro si riferisce ad alcune espressioni contenute nell'articolo relative a
impressioni tratte da Pasolini sul Sud del paese. In particolare, Pasolini
riferendosi a Cutro dice:
"A
un distendersi di dune gialle, in una specie d'altopiano, è il luogo che più mi
impressiona di tutto il viaggio. È veramente il paese dei banditi, come si vede
in certi western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente
che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro
mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano al loro atroce
lavoro, c'è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia...".
giovedì 11 aprile 2013
mercoledì 10 aprile 2013
Alberto Sordi
Alberto Sordi |
"Voi state a sentire troppo quelli
che dicono “ah le donne magre, con quello stile, con quella classe... magra
magra magra deve essere la donna”, ma chi l’ha detto ao? quegli ometti che je
piace l’osso, non sono ometti giusti. Io so romano, a noi ce piace la ciccia..."
ALBERTO SORDI
Roma 1920 – Roma 2003
Attore cinematografico, doppiatore e
regista italiano.
Un americano a Roma |
martedì 9 aprile 2013
lunedì 8 aprile 2013
domenica 7 aprile 2013
Maestri di Scandale nel 1949-1950
Al centro, la Maestra Luisa Cosentino (moglie di Nicola Tiano) in una foto del 1925 (Archivio Aprigliano). |
Maestri di Scandale nell’anno
scolastico 1949-1950
D’Alfonso Giuseppe..........5ª Mista:
alunni 27 – maschi 11 – femmine 16
Sculco Vittorio...................1ª
Maschile: alunni 33 –
Critelli Anna.......................1ª
femminile: alunni 56 -
Mazza Rosaria...................2ª
maschile: alunni 43
Di Paola Filomena..............2ª
femminile: alunni 46
Cannozzo Francesco.........3ª maschile:
alunni 49
Bevilacqua Lidia................3ª
femminile: alunni 25
Regedo Wanda..................4ª Mista:
alunni 46 – maschi 20 – femmine 26
Monsuto Anna...................5ª Mista:
alunni 23 – maschi 12 – femmine 11
Scuola popolare 1949
Maschelli
Rosa....................Alunni 28
Roma. A.N.I.M.I. (Associazione
Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno
d’Italia), Archivio Rossi-Doria, Scandale, faldoni I-VI.
venerdì 5 aprile 2013
Il massacro dei Lumi
La Ghigliottina in un dipinto d'epoca. |
Di Vandea si è tornati a parlare in
Francia, in Parlamento, sui giornali e sugli schermi televisivi. L’Ump, il
partito di opposizione, ha presentato in Assemblea nazionale un disegno di
legge che ha lo scopo di riconoscere il «genocidio vandeano», che ebbe luogo,
a più riprese, tra il 1793 e il 1796 per opera delle truppe rivoluzionarie di
Robespierre nei confronti degli abitanti della regione contadina della Vandea.
I sostenitori della tesi del genocidio parlano di una «congiura del silenzio»,
in cui la politica e la storiografia avrebbero cospirato perché cadesse
nell’oblio il grande sacrificio dei vandeani, colpevoli di aver difeso le loro
convinzioni religiose contro il nuovo potere ateo e giacobino. Le «colonne
infami» repubblicane compirono spietati massacri contro i vandeani, lasciando
sul terreno dai duecentocinquanta ai trecentomila morti.
«Se approvasse la proposta sul genocidio,
la Repubblica
accetterebbe per la prima volta di guardarsi allo specchio», ha scritto sulla
rivista Causeur lo storico Frédéric Rouvillois. «Per la prima volta
riconoscerebbe il terribile delitto che ha segnato l’inizio della propria
storia». Di parere opposto lo storico della Rivoluzione francese, Jean-Clément
Martin: «I crimini sono crimini, ma manca la logica». Significa che i vandeani
non furono sterminati in quanto tali, ma sono stati vittime di una guerra
civile. Lo spiega così Alain Gerard: «La Rivoluzione non poteva ammettere che il popolo si
ribellasse contro di lei. Per questo la Vandea doveva scomparire».
La tesi del genocidio è stata portata
avanti da Reynald Secher, uno dei maggiori storici delle guerre vandeane, secondo
il quale «quelle rappresaglie non corrispondono agli atti orribili, ma
inevitabili, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga
e atroce guerra, ma proprio a massacri premeditati, organizzati, pianificati,
commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la volontà cosciente e
proclamata di distruggere una regione ben definita e di sterminare tutto un
popolo, di preferenza donne e bambini» («Il genocidio vandeano», EFFEDIEFFE
Edizioni, 1989).
Tutti i libri in latino, fossero pure i
«Colloqui» di Erasmo da Rotterdam, finirono nel fuoco. I preti nella trappola
di Rochefort furono più di quattrocento. Nelle loro ciotole di legno la Rivoluzione versò solo
carne putrida, merluzzo andato a male, malsane fave di palude. L’acqua era
infetta. A chi ne chiedeva di più, i fidati seguaci della Dea Ragione
rispondevano di servirsi pure, mostrando a dito l’oceano. Vi furono presto
casi di delirium tremens, di follia. In poche settimane fu un’ecatombe di
sacerdoti. I guardiani abbandonarono la nave. I morti venivano scaraventati in
mare o seppelliti nella palude. Per non sbagliare qualcuno venne sepolto mentre
ancora respirava.
In Vandea la guerra non ebbe un centro,
ma era dappertutto, perché ovunque vi fosse un vandeano, fanciullo o adulto,
uomo o donna che fosse, là per la
Repubblica si trovava un «soldato nemico». Nessuna delle
regole dell’antica arte militare fu rispettata in quella guerra, perché fu la
«prima guerra moderna», in cui dei civili si fece carne da macello. In Vandea
le armi principali furono le preghiere nelle chiese solitarie, le corone di
rosario agli occhielli, i «sacri cuori» cuciti agli abiti, le processioni e le
riunioni nei boschi, i giuramenti di rifiutarsi al reclutamento, i racconti dei
miracoli, fu la rivolta di tutto un popolo, in cui le congiure erano nascoste
dietro l’altare di ogni borgo contadino. I sacerdoti officiarono nelle brughiere
e nelle paludi. Per primi s’armano i contadini. Mentre altrove in Francia sono
state le classi superiori ad avere spinto il popolo, nella Vandea
cristianissima è il popolo a incitare le classi superiori.
A dispetto di certa storiografia, i
contadini della Vandea non erano monarchici più di altri, non furono supini
sostenitori dell’Ancien Régime. Erano profondamente cattolici. L’origine di
questa fedeltà vandeana alla chiesa ebbe radici antiche, affonda in un passato
di simpatie calviniste e nell’opera di catechizzazione dei missionari della
Compagnia di Maria e delle Figlie della Saggezza.
Il generale vandeano era un venditore
ambulante. Si chiamava Jean Cathelineu, per tutti «il santo d’Anjou». È intento
a impastare il pane, quando sente la voce che gli comanda di alzarsi e mettersi
a capo di questa guerra santa. Guida una folla armata di falci, bastoni e pochi
fucili, in cui le donne, nei campi e nei boschi, pregano in ginocchio per la
vittoria dei loro mariti e figli. Da ogni angolo della regione si leva un
augurio che è un grido di odio verso i giacobini e il loro ateismo. I vandeani
conquistano le città e poi le abbandonano. La facoltà di dissolversi e ricomporsi
è la loro forza e la loro debolezza. Guidati dal santo di Anjou attraversano a
decine di migliaia la Loira
per liberare Nantes, per coinvolgere nella loro guerra i fieri «chouans»
realisti della Bretagna.
Papa Karol Wojtyla ha beatificato,
durante il suo pontificato, 164 di questi «martiri» della Rivoluzione francese.
Nel corso di una controversa visita in Vandea, pronunciò un discorso ben
lontano dal revanchismo. Nel rendere onore ai vandeani caduti nell’impari lotta
contro le armate illuministe, Giovanni Paolo II sottolineò la loro
testimonianza di fede, ma trascurò, se non addirittura condannò, il senso
politico della controrivoluzione. Forzando un po’ la storia, il Papa affermò
che anche i vandeani «desideravano sinceramente il necessario rinnovamento
della società», circoscrisse alla difesa della libertà religiosa la loro
ribellione, non tacque i «peccati» di cui anch’essi si erano macchiati
nell’asprezza della lotta (sanguinose furono le rappresaglie vandeane contro i
rivoluzionari).
Anche nella chiesa cattolica ci sono
opinioni differenti sulla Vandea. Padre Giuseppe De Rosa sulla Civiltà
Cattolica ad esempio ha scritto che la guerra di Vandea di due secoli fa
andrebbe guardata con maggiore «spirito critico», senza farne una «bandiera» e,
tanto meno, il «simbolo dell’autentico cristianesimo». Di diverso avviso
l’arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, secondo il quale «in quanto
è avvenuto in Vandea trovano le loro premesse le stragi che hanno insanguinato
l’intero XX secolo in nome o di un assurdo ideale di giustizia, di un’aberrante
esaltazione di una nazione o di una razza, o di un egoismo mascherato da civile
comprensione».
È la rivelazione del male compiuto da
Robespierre. E anche Jean Tulard, docente all’Università Paris IV ed esperto di
Vandea, paragona le azioni dei giacobini agli eccidi ordinati da Stalin. Gli
storici non amano i paragoni con l’Olocausto. Ma della Vandea parlano come di
un «popolicidio», mentre a lungo storici marxisti hanno letto la guerra di
Vandea come una guerra della borghesia centralizzatrice delle città contro il
popolo contadino.
Varrà la pena di ricordare che i
vandeani sono stati sterminati con metodi non dissimili da quelli nazisti. Così
si legge sul Bollettino ufficiale della nazione: «Bisogna che i briganti di
Vandea siano sterminati prima della fine di ottobre. La salvezza della patria
lo richiede». I vandeani sono considerati degli «ominidi», delle sottospecie di
uomini, e in quanto tali non aventi diritto a un territorio.
Il nome stesso Vandea viene eliminato,
deve scomparire. Si assegna un nuovo nome alla Vandea chiamandola
«dipartimento Vendicato», per esprimere appunto questa volontà di ripopolare
quella parte di Francia un tempo abitata da «cattivi francesi».
Quello della Vandea è il primo
genocidio della storia ideologica del mondo contemporaneo. Le Colonne
infernali, tagliagole al comando del generale Louis Marie Turreau, devastarono
la regione con feroce acribia cartesiana. Fucilazioni, annegamenti, falò di
parrocchie zeppe di civili, camere a gas. C’era l’onta di un pezzo di Francia che
aveva osato levarsi contro la volonté générale, ma anche il diffondersi d’idee
malthusiane in una Francia attanagliata dalla fame per colpa della stessa
rivoluzione. Così i giacobini concepirono, votarono all’unanimità e
realizzarono l’annientamento di un gruppo umano religiosamente identificabile.
Con ben due leggi, scritte e conservate negli archivi militari: il 1° agosto si
decise la distruzione del territorio, degli abitati, delle foreste e
dell’economia locale; il 1° ottobre si ordinò lo sterminio degli abitanti,
prima le donne («solchi riproduttori») poi i bambini. Leggi in vigore fino alla
caduta di Robespierre, nel luglio 1794. Tutto come Hitler prima di Hitler.
Si usò in Vandea il termine «race»: un
vocabolo che, di conio illuminista (Voltaire, Buffon, l’Encyclopédie), produsse
lì subito l’idea di una «race maudite» da estirpare. Bertrand Barè- re, membro
del «Comité de salut public», gridava dalla tribuna: «Quelle campagne ribelli
sono il cancro che divora il cuore della Repubblica francese».
Quanti furono i morti? Un vandeano su
tre? Centoventimila o seicentomila, come sostiene lo storico Pierre Chaunu?
«Qualsiasi rivoluzione scatena negli uomini gli istinti della più elementare
barbarie, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio», disse il
grande scrittore russo Aleksandr Solzenicyn quando inaugurò a Lucs-sur-Boulogne
un memoriale dedicato ai martiri del massacro perpetrato in questa piccola
località dalle truppe repubblicane del generale Cordelier. In poche ore, fra
il 28 febbraio e il primo marzo del 1794, furono uccise 564 persone, fra cui
110 bambini al di sotto dei sette anni.
«Il XX secolo ha notevolmente
ottenebrato l’aureola romantica della rivoluzione del XVIII secolo», disse
ancora l’autore di «Arcipelago Gulag».
Nonostante le esecuzioni sommarie di
Angers, nonostante le «noyades», gli annegamenti notturni a Nantes, in cui
senza processo in due mesi vennero gettati nell’estuario della Loira da due a
tremila tra preti «refrattari», la resistenza della Vandea non venne domata.
Per vincere i vandeani, caduto il Comitato di salute pubblica, la Rivoluzione pensò di
ricorrere a «la douceur», alla dolcezza. Si consigliò ai soldati dalla casacca
azzurra di partecipare alle funzioni nei villaggi, di rispettare i preti e la
fede della povera gente. Alla fine era la Vandea che aveva vinto, seppure da un immenso
cimitero.
Al termine della guerra, il generale
francese Joseph Westermann spedì una breve lettera al Comitato di salute pubblica:
«Non c’è più nessuna Vandea. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho massacrato
i bambini sotto i cavalli e le donne non daranno più alla luce briganti. Non ho
prigionieri. Li ho sterminati tutti». Sembra un inveramento delle parole pronunciate
negli anni del Terrore dal celebre moralista Chamfort: «La Rivoluzione è un cane
randagio che nessuno osa fermare».
Articolo del giornalista Giulio Meotti su
Il Foglio del 18 Marzo 2013