Foto By Ros |
martedì 31 luglio 2012
lunedì 30 luglio 2012
domenica 29 luglio 2012
Renato Carvelli - Vuoto estremo
VUOTO ESTREMO
Il vento…s’intona con la mia tristezza
in accordo con i fulvi campi di giugno,
immerge la mia essenza in una realtà
surreale,
dove i ricordi si gelano
cristallizzando anche i miei momenti
più luminosi e,
il futuro incerto e opaco
s’ increspa come una simbiosi con il
mio ego,
paralizzandomi la logica, la
razionalità e,
i valori percettivi, ma,
gli anticorpi dell’anima
a protezione della mia entità
arrestano l’agonia bidimensionale
facendomi tornare nella forse
realtà.
Renato Carvelli
venerdì 27 luglio 2012
Calabresi famosi - Le sorelle Berté
Loredana Berté in una foto del sito massivemusicstore.com |
Loredana Berté
Nata a Bagnara Calabra nel 1950
Cantante italiana
Ha detto:
“Ho litigato con la vita quando avevo
cinque anni
e non ci ho fatto più pace.
Io fin da piccola ero contro qualcuno e
contro qualcosa.
Io già quando avevo cinque anni volevo
andarmene di casa.
Quando se ne andò mio padre io dissi:
“Speriamo che se ne vada anche mia
madre”.
Invece mia madre non se ne andò e a 12
anni me ne andai io”
Domenica Berté in arte Mia Martini - Foto Wikipedia |
Domenica Berté
Vero nome di Mia Martini
Bagnara Calabra 1947 – Cardano al Campo
1995
Cantante italiana
giovedì 26 luglio 2012
mercoledì 25 luglio 2012
martedì 24 luglio 2012
Sei anni fa ci lasciava Don Renato – Sul periodico “IL CAMMINO” un ricordo di Gino Scalise
Don Renato a Roma con Giovanni Paolo II e la Banda Musicale di Scandale |
Gino
Scalise che ha varcato l'85° anno di età è stato, è un testimone esemplare di
vita cristiana. La malattia lo tiene inchiodato in casa da dove continua la sua
opera di apostolato incontrando persone, specie giovani, che riconoscono in lui
un autentico maestro di vita. Ha conosciuto don Renato fin dalla sua giovinezza
e gli è stato attivamente vicino con responsabilità nel campo dell'azione
cattolica. Poeta e scrittore di particolare sensibilità va a lui il merito di
avere scritto un'interessante storia di Scandale. Gli abbiamo chiesto di
parlarci di don Renato e lui ci ha fatto pervenire un suo personale ricordo che
integralmente riportiamo di seguito.
IL RICORDO DI GINO SCALISE
Nel prete
che arriva come Parroco della comunità di Scandale, rivedevo il piccolo
seminarista sammaurese, in nera talare e con la fascia attorno alla vita (come
allora si usava nei seminari minori), che a cavallo di un giumentello sardo,
veniva a Scandale durante le ferie scolastiche dell’estate, per prendere lezioni
integrative dall’allora Parroco Don Micuzzo Maddalone. Uscendo dal portone
dell’abitazione di mio nonno, di fronte alla casa del Parroco, i nostri sguardi
si incrociavano e ci scambiavamo, con la mano, un timido gesto di saluto. Era
come un’intesa tacita; che sguardi!
Diventato
prete, quel seminarista, arrivò come Parroco a Scandale, io là capii...e organizzai
l’ingresso del nuovo Parroco, mediante tanti cartelli di benvenuto, inalberati
da altrettanti giovani e ragazzi. Il nuovo Parroco si rivelò un eccellente
pastore d’anime. Come prima cosa, cercò di alleviare le difficoltà e sofferenze
della gente del paese provata dalla guerra; tuonava dall’altare contro l’usura
profitti era; per il resto, fu un fiorire di iniziative, associazionismo,
organizzazioni. Faceva lunghe veglie di preghiera, con i giovani nella Chiesa
Madre. Annunciava dall’altare la costruzione di una Casa della Carità per le
bambine abbandonate del Crotonese: sembrava un’utopia! Cominciò l’opera
poveramente, la continuò nella chiesa dell’Addolorata; poi, per le accresciute
richieste di ricovero, si diede da fare per realizzare la grande Casa. Ma
quante umiliazioni, sacrifici e difficoltà essa costò! Confortato era, comunque,
dalla condivisione delle coraggiose e generose ragazze che lo avevano seguito
nella difficile sua avventura di Carità, guidate dalla superiora Fiorina
Ierardi. Questa era la sua vocazione specifica. Attorno alla grande Casa della
Carità di Condoleo altre opere di alto valore sociale sorsero con il tempo e
tutte testimoniano il ricordo vivo e imperituro di Don Renato Cosentini; non
solo, quindi, il mio ricordo, ma di tutta la gente di Scandale e dell’intero
crotonese.
Gino
Scalise
Cfr.,“IL CAMMINO”, Periodico
Trimestrale della Fondazione Casa della Carità Maria SS. Addolorata
Onlus-Scandale, Anno XXXX, n° 6, nuova serie Luglio 2011.
lunedì 23 luglio 2012
domenica 22 luglio 2012
Scandale nei ricordi del prof. Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino in una foto dell'Archivio Aprigliano |
Gli anni perduti
Sono al paese, che non rivedo da un po’
di tempo. Non mi è facile trovare un posteggio, cosa una volta facilissima.
Giro tutt’intorno, in lungo e in largo, e alla fine trovo un angolino in piazza
Oberdan, di fianco alla colonnina del carburante, dove una volta le auto si
fermavano a fare il pieno con un paio di migliaia di Lire. Gaetano Citriniti,
il gestore, interrompeva ogni altra attività del suo multiforme esercizio
commerciale ed accorreva ogni volta che qualche autista impaziente lo chiamava
a colpi di clacson. Ricordo le risate tra amici, quando qualcuno raccontava del
contadino che, vista per la prima volta quella colonnina che misurava il
carburante con delle lancette, si fermò a regolare il suo orologio. Ora Gaetano
non c’è più, anche la pompa di benzina sembra abbandonata ed è chiusa anche la
porta di quella sua cantina, dove una volta tanti paesani andavano a bere un
bicchiere di vino, magari con un rametto di sedano che faceva capolino da una
delle tasche della giacca.
Fa molto caldo e il sole picchia in
maniera inclemente sulle persone e sulle cose. Ho bisogno di un po’ d’ombra e
mi dirigo sul lato opposto della piazza, sulla veranda, dove una volta era
l’ingresso del Bar Centrale. In quel bar, ancora ragazzo, ho giocato le mie
prime partite di Terziglio e, insieme con gli amici di un tempo, ho dato
alimento ai primi sogni della mia vita. Lì ho conosciuto alcune persone, che
ricordo ancora con gratitudine e simpatia, come l’avvocato Giuseppe Barca o il
truffatore Cesarino Moncalvo. Lì ho trascorso una parte della mia giovinezza ad
osservare il passeggio sulla piazza antistante o a scambiare quattro chiacchiere
con Gigi Paparo, il proprietario del bar. Gigi gestiva contemporaneamente il
bar ed un negozio di alimentari posto sul retro e correva da una parte
all’altra, sempre con una biro appoggiata sull’orecchio destro, che afferrava
velocemente per fare conti e riponeva subito dopo in miracoloso equilibrio.
Quando c’erano pochi avventori ed il lavoro era ridotto al minimo, Gigi ne
approfittava per leggere la sua immancabile ed amata Domenica del Corriere, che
teneva sempre al suo fianco e che metteva a disposizione dei clienti solo
quando usciva il nuovo numero. Ricordo ancora con affetto Gigi, che sarebbe
scomparso prematuramente, lasciando nel dolore la moglie e i tre figli.
Sulla veranda non ci sono più le sedie
e i tavolini di un tempo e la porta di ingresso è malinconicamente chiusa. Mi
siedo all’ombra sul marciapiede antistante e osservo da lontano, sul lato
opposto della piazza, le finestre e la porta chiusa del Bar Sportivo. Solo
l’insegna in alto, scolpita in cemento, ricorda che lì c’era un altro ritrovo
di noi giovani, che vi andavamo a giocare al flipper o al calcio balilla. Il
gestore era un giovane come noi, Gaetano, e passava più tempo con noi a
giocare, che dietro il bancone a servire i rari clienti. Si giocava molto al
flipper allora e il premio per il vincitore dei vari tornei era quasi sempre
una piccola torta Fiesta, che vinsi più di una volta, suddividendola poi con
gli amici e bevendoci sopra un bicchiere di birra. Gaetano un giorno, assunto
come vigile urbano, avrebbe cessato di fare il barman, preferendo giustamente
lo stipendio modesto, ma sicuro, alla fine del mese, piuttosto che gli incassi
aleatori della sua attività commerciale.
Mi alzo e mi incammino lungo viale
Puccini, la strada della mia fanciullezza. Su quella strada abitavano i
Garieri, i De Biase, i Tallarico. Vedo venirmi incontro Peppe Coriale, detto
“’U Zaré”. Faccio un rapido calcolo e penso che dovrebbe essere ultracentenario,
mentre la sua immagine sembra essersi fermata al tempo di quando io ero
bambino. Mi sorride e io ricordo di quando, ragazzo, sotto un grande albero
posto di fronte casa mia, in Estate, gli leggevo la novella di Mazzarò e lui
ascoltava incantato ed affascinato. E non si stancava mai e mi chiedeva di
leggergli e raccontargli ancora una volta la novella di Mazzarò, che da uomo
povero e miserabile era finito col diventare il padrone di tutto il paese.
Questa volta però Peppe non mi chiede di raccontargli ancora una volta quella
storia. Mi tocca sulle braccia, come se volesse controllare la mia consistenza,
poi si limita ad accennare un saluto con la mano e infine, silenziosamente,
scivola via. Mi giro indietro a seguire con lo sguardo il suo cammino e non lo
vedo più, come se si fosse dissolto
nella nebbia del tempo.
Arrivo allo spiazzo antistante la
cappelletta di San Leonardo. Nella luce accecante del primo pomeriggio ho
l’impressione di vedere sull’uscio di casa Nonna Betta, vispa e incline a
scherzare un po’ con tutti, ma che non sopportava in alcun modo gli schiamazzi
e gli strilli dei bambini. Quante storie con lei e quante fughe, quando ci inseguiva con la scopa e ci costringeva ad
interrompere i nostri giochi! Altri tempi e altri trastulli, quelli della mia
fanciullezza, quando ci bastava poco per essere felici e un semplice ramo
appuntito bastava a farci sentire invincibili come Zorro. Costruivamo degli
aquiloni ritagliando la carta dei giornali, che poi incollavamo con farina e
acqua. Eppure quegli aquiloni, incredibilmente pesanti, volavano e si libravano
in aria leggeri come farfalle: forse erano sospinti in alto dai nostri desideri
di fanciulli che si affacciavano alla vita. Mi volto a guardare ancora nonna
Betta, ma l’uscio è deserto e ho l’impressione di avvertire soltanto il cigolio
lamentoso di un’anta che sembra richiudersi su se stessa.
Sulla sinistra, ad una biforcazione,
c’è un viale che porta all’edificio scolastico, dove tanti anni fa ho mosso i
primi passi di insegnante. Non opero alcuna scelta nel decidere la mia
direzione e muovo i miei passi verso quel viale. Non so perché succeda: forse
sono alla ricerca della mia identità perduta, forse voglio solo recuperare le
ombre e i fantasmi di una vita che non c’è più. Sollevo gli occhi e vedo una
signora che mi sorride e mi saluta. Qualche piccola ruga che increspa il suo
volto non mi impedisce di riconoscerla: è Marilù. Mi prende sottobraccio e mi
invita dolcemente a ritornare indietro. Vorrei farle tante domande, chiederle
dove si trova, dirle che l’ho ricordata a lungo, ma mi accorgo che un pizzico
di emozione, ancora dopo tanti anni, mi rende impreparato e incredulo.
Camminando, ci guardiamo in silenzio:lei è ancora bella, come una volta, come
in quella Primavera di tanti anni fa, quando entrambi eravamo meravigliati
della nostra felicità e procedevamo insieme, senza sapere e senza preoccuparci
di quello che la vita ci avrebbe riservato. Quando ci fermiamo, Marilù si
stacca dolcemente dal mio braccio, mi accarezza il volto, continua a sorridere,
si allontana e infine sembra dissolversi, ombra tra le ombre. Non la vedo più.
Affronto una leggera salita, quella che
porta verso la strada Nazionale. Ho voglia di fermarmi un pochino e mi appoggio
ai tubi e al muretto basso dove una volta, in Estate, ascoltavamo tutti insieme
le avventure dell’avvocato Barca. Vedo arrivare in lontananza Romano, Romano
Cizza, e ho un tuffo al cuore. Quanti giorni della nostra vita abbiamo
trascorso insieme! Quanti ricordi! Caro Romano! Come è possibile che tu sia
qui? Viene con decisione verso di me e, quando mi è accanto, gli chiedo degli
altri. Gli dico che ogni tanto vedo Totò al paese, ma gli altri, gli altri
certo, Ciccio e Nino Simbari, Ciccio Rizzuto, e Totò Rizzuto, “il capitano”
come lo chiamavamo, e Leonardo e Mimmo, e tutti gli altri, dove sono? Eravamo
partiti insieme, quasi tenendoci per
mano, per affrontare meglio le tempeste e poi ci siamo persi, lungo le strade e
i sentieri della vita. Romano mi sorride mestamente, ma non parla e si avvia da
solo lungo la strada. Istintivamente mi viene voglia di seguirlo, per fargli
altre domande, per chiedergli se ha qualche rimpianto, qualche desiderio.
Vorrei anche chiedergli se ha qualche
segreto da svelarmi ora che, nella sua condizione, avrà certamente capito il senso della vita e ancora se si trova bene dove si trova. Romano si
gira improvvisamente, mette un dito sulle labbra, come per suggerirmi il
silenzio, e con la mano mi fa chiaramente capire che non debbo seguirlo.
Avverto un senso di smarrimento e di
vertigine e, mentre mi appoggio ai tubi del muretto basso, chiudo strettamente
gli occhi. Li riapro con fatica, perché la luce del sole intorno è ancora
abbagliante, e vedo che accanto a me c’è un bambino. Avrà sei o sette anni quel
bambino e mi guarda con l’atteggiamento di un monello di strada, quasi con un
senso di sfida. Poi mi fa marameo con la mano sinistra, puntando il pollice sul
suo nasino affusolato e con la destra accenna un saluto. Lo osservo con
attenzione: ha i capelli castani, qualche ricciolo in testa, le guance paffute,
dei pantaloncini sporchi di sabbia, un ginocchio sbucciato, una fionda che fa
capolino dalla tasca posteriore.”Mi riconosci?”, mi chiede. Gli rispondo
gentilmente che, purtroppo, non so chi sia. E lui ancora: “Possibile che non mi
riconosci?”. Lo guardo ancora e noto che sulla palpebra sinistra ha una piccola
cicatrice, quasi impercettibile. E allora lo riconosco: è lui, giunto fino a me
attraverso i sentieri del tempo e dello spazio. Allungo una mano e gli
scompiglio affettuosamente i capelli, lo accarezzo, prendo la sua piccola mano.
Vorrei tanto trattenerlo con me, perché
l’ho tanto cercato. Ma in lontananza appare una giovane donna e mi accorgo che
ci sta osservando . Una strana ed improvvisa folata le scompiglia i capelli che
ondeggiano al vento. Lei si aggiusta i capelli e con una voce dolcissima chiama
a lungo: ”Ezioooooo…”. Rivedo in un attimo, come in un flashback, la mia vita,
gli anni perduti. Il bambino lascia dolcemente la mia mano. “Debbo andare”, mi
dice. Poi se ne va e si dirige verso quella giovane donna, porgendole la sua
piccola mano. Entrambi si avviano, si girano indietro per l’ultima volta, come
per un ultimo saluto, poi si allontanano e spariscono nel nulla.
Articolo pubblicato sabato 14 luglio 2012
dal sito UNLA di Scandale
venerdì 20 luglio 2012
Fuoco greco
FUOCO GRECO
Sulla fine del VII secolo d.C. l’impero
bizantino introdusse nelle battaglie navali, ma anche in quelle di terra,
un’arma segreta, cioè quello che tutti chiamano il “fuoco greco”: espressione
usata per indicare una miscela incendiaria che veniva spruzzata sulle navi e
queste, essendo fatte di legno, prendevano immediatamente fuoco. Il liquido
veniva tenuto in grandi otri di pelle o in vasi di terracotta chiamati siphones che all’occorrenza venivano
lanciati. Oggi gli esperti ritengono che fosse una miscela di pece, salnitro,
zolfo, nafta e calce viva.
Per secoli la formula segreta, che
conoscevano in pochi, è stata tramandata da un imperatore all’altro. Dall’inizio
del XIII secolo, probabilmente per la perdita della formula o per il difficile
reperimento di tutte le sostanze necessarie, l’uso del cosiddetto “fuoco greco”
nelle battaglie divenne raro e scomparve.
Comunque, fu proprio l'utilizzo di
questa miscela che fece fallire vari assedi degli Arabi musulmani alla città di
Costantinopoli a cominciare dall’ottavo secolo e rese i Bizantini invincibili
per centinaia di anni.
giovedì 19 luglio 2012
mercoledì 18 luglio 2012
Tropea
martedì 17 luglio 2012
lunedì 16 luglio 2012
domenica 15 luglio 2012
Iginio Carvelli - “Prete tra le sterpaglie”
Al centro, Don Renato Cosentini |
“26 luglio 1986 .
Una giornata di luce, di calore. La comunità è in festa. Sono arrivati in paese
tanti preti, anche il vescovo di Catanzaro Mons. Cantisani.
È la festa
della Madonna della Difesa, ma non è questo il motivo della presenza di tanti
preti, alcuni venuti da lontano. La festa patronale è una coincidenza.
Ricorrono i
quarant’anni di sacerdozio di don Renato e di molti suoi compagni di seminario.
Vogliono ricordare insieme, proprio qui a Scandale, quel lontano giorno del
1946 che li vide consacrati alla vita sacerdotale e inviati in mezzo alle
macerie e alle miserie lasciate dalla guerra appena finita. Una missione molto
delicata fu assegnata a don Renato. [...]
[Era andato via improvvisamente da
Scandale, per delle dicerie, il parroco don Pasquale Pantisano; quindi,
continua Carvelli]
A
bonificarlo venne chiamato appunto don Renato col profumo fresco degli oli
della consacrazione, con la carica spirituale irrompente, con l’entusiasmo dei
suoi ventitre anni. Piccolo Davide, armato dalla fionda di una carità profonda,
sfidò il gigante Golia rappresentato da un popolo, ostaggio del pregiudizio, di
un veleno che accattivisce e chiude le porte al dialogo, finanche a Dio. Mi
ricordo fanciullo quando entrai chiassoso in chiesa per l’arrivo di Don Renato,
novello sacerdote. [...]
Ricordo il
mio primo incontro col giovane sacerdote, l’inizio di un cammino insieme, un
cammino che dura da 40 anni, un cammino a volte tormentato e sofferto.
Arrivarono infatti le tappe del travaglio dell’idea, della tempesta del dubbio,
del conflitto interiore. Sopraggiunse la paura mentre le mani erano ferme
all’aratro e lo sguardo lanciato all’infinito. Il tormento del tradimento
quando il cuore smise di cantare “ecce altare domini”! Nonostante tutto, la
costanza di seguirlo con tutta la povertà e la miseria che possa avere un
essere umano.
È difficile
fare sintesi di 40 anni di vita sacerdotale di Don Renato, di 40 anni di
apostolato nella piccola ma complessa comunità Scandalese. Nel lontano ’47,
quando ancora si udiva il rombo di una guerra assurda e le ferite sociali erano
tremendamente sanguinanti, qui a Scandale, venne giurata da Don Renato
l’opzione per i poveri, sulla scia di un grande apostolato Calabrese, Don
Mottola!
Oggi la Villa Condoleo , le volontarie
che accettarono di abbracciare il Cristo difficile, sono la sintesi vera di 40
anni di vita sacerdotale di Don Renato. A Villa Condoleo non si vedono le
lacrime della lotta, dell’incomprensione, della solitudine, perché la terra
l’ha assorbite per fare germogliare l’amore, la speranza, la fede.
Da dove
cominciare? È la prima fondamentale domanda che il giovane presbitero si pose guardando
il campo da dissodare. Erano alte le sterpaglie, estese le gramigne, fitta la
boscaglia, arsa la radura, pungenti i rovi lungo i sentieri”.
Cfr., Iginio Carvelli, Rughe di pietra, Rubbettino, Soveria Mannelli,
Catanzaro, 1995, pp. 31- 34.
venerdì 13 luglio 2012
Cesare Lombroso in Calabria
Le parole che seguono sono state
scritte alla fine dell’Ottocento da un mostro sacro della cultura
risorgimentale: Cesare Lombroso (Verona 1835 – Torino 1909), noto per le sue
scarse simpatie, persino biologiche e razziali, nei confronti dei Meridionali in
genere:
“Mi duole
il constatare per troppe vie officiali o quasi officiali che la sospirata
unificazione d'Italia, ahi, troppo più formale che sostanziale, non ha recato
alcun profitto nei rami più importanti della convivenza Calabrese; e in molti
anzi imprimeva un regresso: come certo nell'agricoltura, nella emigrazione,
nella criminalità, nella proprietà, nell'economia, nella morbidità, nella
nuzialità, nei morti precoci, nelle scuole; mentre i vantaggi più apparenti che
reali, più di vernice che di sostanza, perché o precoci, o inadatti, o
insufficienti come le ferrovie, le scuole, i giornali e le rappresentanze
politiche divennero nuove fonti di disagio e di criminalità, accumulando a danno
degli umili ed a profitto di troppo pochi gli inconvenienti della civiltà
insieme a quelli della barbarie”.
Cesare
Lombroso in Calabria, edizione originale 1898, ripubblicato nel 2009
dalla Rubbettino, a cura di Luigi Guarnieri.
giovedì 12 luglio 2012
mercoledì 11 luglio 2012
martedì 10 luglio 2012
lunedì 9 luglio 2012
domenica 8 luglio 2012
Il romanzo I Baroni in una recensione di Orsola De Cristofaro
Sopra, la copertina dell’edizione
tedesca: Gian Paolo Callegari Die Barone,
traduzione di Charlotte Birnbaum, Hamburg, 1953.
Gian Paolo Callegari, I Baroni, Milano, Garzanti, 1950.
Ecco un
libro che viene a collocarsi nella nostra migliore letteratura meridionalistica,
non soltanto, come è stato detto, accanto a Verga e Capuana, ma in certo qual
modo anche a Dorso e a Levi. Il suo tema è appassionante, la presentazione
dell’editore vuole avvertirci “che il problema del latifondo è trattato sulla
base di episodi veri desunti da un carteggio borbonico inedito e dai racconti
raccolti dalla viva parola di un centenario di Scandale nel crotonese”. Questo
può non interessare, come può non interessare l’avvertimento che ai baroni
rovinati succederanno i loro servi, “mentre la turba di contadini superstiziosi
e primitivi abbandonerà la via del timor degli uomini e di Dio”. Quel “timor
degli uomini” che ha ceduto all’attuale bisogno di liberazione delle masse
meridionali, e quel “timor di Dio” che era concepito come “le preghiere che
servono da orologio” (p. 119). La bellezza delle 318 avvincenti pagine del
libro nell’intensa e vivacissima vita di cui vivono tutti, il barone, la
baronessa, il baronetto scemo, la baronessina ninfomane, il servo fattore, e
medici, avvocati, contadini, pecorari, arcipreti e vescovi; vivono i carbonari
e gli intellettuali progressisti; gli strozzini e i gabellieri la corte del re
di Napoli e gli aristocratici collegi della città regale. Qui è il vero valore
artistico del libro: che non è a tesi e che proprio per questo riesce a porre
in primo piano, al di là e al di sopra dei singoli personaggi, quello che si
chiama il problema meridionale.
L’azione si
svolge durante uno dei momenti più travagliati della storia del Mezzogiorno d’Italia: è l’epoca del
tramonto dei Borboni e dell’avvento delle camicie rosse garibaldine. Ma i paesi
di montagna sono troppo lontani dalle strade per le quali passa quella che
poteva essere una rivoluzione, la cui eco giunge come un sogno e il cui effetto
resterà limitato alla capitale e ai pochi altri centri maggiori; effetto
d'altronde destinato a spegnersi rapidamente tra un Piemonte tradizionalista e
un Meridione feudale. Il feudalesimo ivi risorge continuamente dalle sue
ceneri: nessuna rivoluzione democratica riesce a spezzarlo: né quella del 1860,
né quella del 1876, né quella socialista dei primi del secolo.
Questo
tragico destino dei cafoni, di fronte ai “galantuomini” le cui stirpi si
rinnovano continuamente, passandosi di generazione in generazione le terre
incolte, è lo sfondo sul quale magistralmente si stagliano i protagonisti.
ORSOLA DE CRISTOFARO
Il PONTE, Rivista mensile di politica e
letteratura, anno VI – n° 9-10, Settembre – Ottobre 1950.
venerdì 6 luglio 2012
La parola al Dalai Lama
“Quello che mi ha sorpreso di più negli
uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi, e poi perdono i
soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di
vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né
il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non
avessero mai vissuto”.
Il Dalai Lama con i Vigili del Fuoco dell'Emilia |